E Oliviero Toscani fu

di - 22 Gennaio 2003

Pure negli eclettici anni Ottanta troviamo rappresentanti della fotografia “oggettiva”, anche se in questo periodo, inflazionato dai valori caldi, visivi, di artisti post moderni come Luigi Ontani, effettivamente la fiaccola dell’obiettività attenua il suo bagliore. Il post moderno predilige infatti una compresenza di elementi impossibile da reperire nella realtà. Ciò risulta particolarmente evidente negli autoritratti fotografici di Ontani (1943) nei quali si concretizza, anche attraverso interventi pittorici e fotomontaggi, l’immaginario mitico dell’autore. In queste fotografie gli assi sincronici e diacronici della storia e di diverse culture si intersecano con apparente casualità, rimandando a referenti depositati nell’immaginario collettivo alimentato da nozioni visive oggi facilmente esperibili attraverso le memorie artificiali che i nuovi media consentono e diffondono. E’ in questo periodo che si fa strada la figura di Oliviero Toscani (1942), attraverso la cui opera la realtà torna fragorosamente alla ribalta. Iniziato come fotografo di moda, Toscani passa ad un tipo di “comunicazione visiva” che dei canali e circuiti della moda si serve per veicolare la propria poetica tutt’altro che patinata. Contrariamente ad altri fotografi di moda che svilupparono, parallelamente alla professione, o allontanandosi da questa, la loro ricerca estetica (Diane Arbus, Irving Penn, ecc.), Toscani riesce brillantemente a coniugare i due aspetti ed anzi a valorizzarli attraverso la loro interazione. Dal 1982, dall’incontro del fotografo milanese con l’imprenditore Luciano Benetton , iniziano le campagne pubblicitarie che porteranno all’attenzione di tutti le immagini curiose e spesso inquietanti diffuse dai mass media e dai manifesti affissi in ogni città. Dei tableaux vivant parossistici, inscenati per scandalizzare chi si affida alle rassicuranti convenzioni razziali e classiste, ci limiteremo ad evidenziare come all’“emorragia” di valori causata dalla discriminazione, queste immagini contrappongano la difesa di una “coagulazione” dell’umanità tutta. Ma quello che più ci interessa è la dissacrante decontestualizzazione su cui si basa tutto il lavoro di Toscani che immette nei circuiti solitamente accattivanti e piacevolmente sofisticati della moda, immagini prese direttamente dalla realtà e senza tante metafore mostra iperrealisticamente i cardini su cui poggiano l’esperienza e le aspettative quotidiane di ognuno di noi: Vita (sesso) e Morte. Così evocati, Eros e Thanatos, nella loro schietta semplicità, ci aggrediscono non tanto per la loro cruda oggettività, quanto per il canale che li veicola. Analogamente a quanto succede con le operazioni di Franco Vaccari – che recuperano il vissuto dello spettatore sottraendolo così all’esperienza virtuale e massiccia indotta dai mass media, a quello che Renato Barilli definisce il «“rumore” indecifrabile di una iper-comunicazione che si rovescia nel suo contrario, in una specie di silenzio o black out» – allo stesso modo le immagini di Toscani colpiscono la nostra attenzione perché si dissociano dall’abitudine cui siamo soliti recepirle; sia quest’abitudine quella derivante dalla realtà quotidiana o quella recepita attraverso gli onnipresenti mass media che è poi lo stesso. Un’operazione, questa di Toscani, simile nella logica, ma opposta nella modalità, a quella degli artisti della Pop Art che utilizzarono le immagini “strausufruite” dei mass media ricontestualizzandole all’interno dei musei. Toscani, invertendo il percorso, trasferisce invece la realtà “bruta” nell’incantato mondo della pubblicità. Riaffiorano così, ancora una volta, le strategie stranianti tipiche del ready made, ma anche la resa formale di queste fotografie è tesa al “riporto oggettivo”. La frontalità della ripresa, per lo più usata da Toscani, è infatti a dire dello storico dell’arte Wölfflfin quella “meno pittoresca”, quellain cui “realtà e apparenza coincidono perfettamente ”. E si tratti di “facce” o di condannati a morte, la loro “tangibilità” è esaltata dal trattamento “impersonale”, funzionale a rilevarli-rivelarli mediante la complicità di pochi e mirati accorgimenti come l’illuminazione asettica e chiara, attenta ad evidenziare ogni dettaglio del soggetto. Queste modalità operative sono le stesse riscontrabili in alcuni fotografi della scuola tedesca, legati anch’essi all’oggettività “identificativa”, come Thomas Ruff e Wolfgang Tillmans. In questi fotografi è riscontrabile però una seppur minima contestualizzazione (gli abiti e i tratti somatici) che relega i soggetti ripresi in un ambito nazionalistico o comunque nord europeo; laddove Toscani intende invece rappresentare l’umanità tutta, multirazziale, purificata spesso anche dai propri abiti, indicativi di inutili nozioni sociali. La propensione di Toscani per il ready made, in questo caso “rettificato”, si palesa infine nell’uso di fotografie b/n altrui, da lui colorate e immesse nei circuiti associabili, ormai inconfutabilmente, col proprio nome. Queste immagini raffigurano le piaghe contemporanee che affliggono l’umanità, con l’intento di sensibilizzare “l’uomo della strada” rispetto a questi problemi ritenuti lontani ed “esotici”; ricordo l’immagine di Franco Zecchin che ritrae un assassinato dalla mafia o quella di Therese Frare in cui un giovane morente di A.I.D.S. viene ritratto accanto alla famiglia disperata. Anche in questo caso, all’eliminazione della laboriosità dell’opera corrisponde un accrescimento del valore concettuale dell’operazione. Valore proclamato dallo stesso Toscani che considera il manifesto pubblicitario, con il suo contenuto “reale”, e non la fotografia, il fine ultimo delle sue operazioni, con buona pace di galleristi e collezionisti. In fondo la pubblicità per Toscani è un veicolo (ma è vero anche il contrario), quello più idoneo per comunicare nel “villaggio globale” poiché, come ha detto lui stesso: “la pubblicità è il più grande mezzo di persuasione politica, e il mezzo è il messaggio.”

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www.olivierotoscani.it

roberto maggiori

[Exibart]

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