fotografia_personaggi | Longanesi e il medium fotografico

di - 17 Settembre 2010
Grazie alla sua inesauribile propensione al fare, e prima
ancora al pensare e al progettare, Leo Longanesi (Bagnocavallo, Ravenna, 1905 –
Milano, 1957) è riuscito a compiere imprese che, senza tema di smentita, sono
da considerarsi epocali.

Oggi, che le circostanze non ci obbligano alla
commemorazione biografica, ci piacerebbe ricordare quello che fra i tanti suoi
interessi è stato il più trascurato: la fotografia.

Ma, diciamolo subito: Longanesi non è mai stato un fotografo.
È vero, qualche scatto l’ha fatto; qualcun altro lo ha pure pubblicato; un
numero imprecisabile ne ha raccolti, rielaborati e messi al servizio delle sue
grandi riviste; ma mai e poi mai ha pensato di specializzarsi nel
“mestiere” del fotografo, come, del resto, in nessun altro.

Tuttavia, la fotografia per lui non è stata una semplice
frequentazione occasionale, ma tutt’altro: è stata un appuntamento fatale.

Siccome la considerava molto vulnerabile alle insidie
della contraffazione ideologica, ha sempre preferito usarla non come documento
storico ma come oggetto d’indagine antropologica sulla società del tempo,
puntando il dito su i suoi aspetti abnormi, sul suo lato comico e ridicolo, su
quella sconveniente spontaneità che gli apparati di potere rifiutavano o peggio
censuravano.


Le lunghe carrellate d’immagini, promiscue e incongruenti,
apparse su L’occhio di vetro, rubrica sui generis del periodico L’Italiano, furono il primo tentativo di
portare in scena il mondo contemporaneo attraverso fotografie e fotogrammi
presi dalle fonti più disparate e ricombinati senza rispettare la logica
narrativa del cinema di finzione o del reportage giornalistico.

La possibilità di restituire, attraverso un prezioso
lavoro di montaggio, una dimensione virtuale, credibile e quasi tangibile,
perché generata, fotograficamente, dalla vita in diretta, venne ribadita
nell’articolo Sorprendere la realtà, comparso sulle pagine della rivista Cinema. Illuminante non solo per aver, a
detta della critica più esperta, annunciato l’arrivo del Neorealismo, ma
soprattutto per la presenza di un insolito allegato visivo: una breve sequenza
di istantanee, senza filo conduttore, che procedevano per associazioni
equivoche, pose inconsuete e soggetti destabilizzanti; ma, proprio in virtù della
loro capacità simulatoria, erano le prime bozze di una nuova cinematografia.

Purtroppo il loro autore, nonostante gli innumerevoli
sforzi, non terminò mai il suo “film dal vero“, anche se continuò, per
molti anni, a ragionare sulla fotografia.


Venne così la svolta del settimanale Omnibus: una grande prova d’orchestra,
diretta in modo mirabile dal “nano di Strapaese“.

Al suo interno la fotografia si ritagliò un ruolo
“solista” davvero innovativo, liberandosi dalle canoniche gerarchie
redazionali e dagli asfissianti doveri di cronaca, portando alla luce
significati nascosti ed emozioni sorprendenti.

Di punto in bianco quell’opinabile quanto manipolabile
questione della “veridicità”, pretesto necessario per la coltivazione
del consenso a mezzo stampa, fu praticamente abolita a vantaggio di una ben più
“trasparente” lettura metaforica.

Il direttore, grazie al suo ostinato disinteresse per
qualsiasi retorica populista, scelse solo immagini amanti del paradosso, della
battuta di spirito, della parodia e del nonsense, che sapevano prevenire o meglio
esorcizzare i vizietti della propaganda. Ma, caduta la maschera
dell’adulazione, la fotografia cambiava volto.

Lo zibaldone delle images-trouvé, di seconda e terza mano,
mescolate e giustapposte a sorpresa, si trasformava in un immaginario
“Museo Barnum”, carico di attrazioni magnetiche e stranianti. Come in
un quadro metafisico o in un testo surrealista, i valori e i significati si
rovesciavano: l’austero diventava comico, il sublime decadeva nel banale, il
raro assumeva le sembianze del volgare quotidiano, e “un morto
assassinato” poteva accoppiarsi con “una bella attrice in costume
da bagno
“.

Ma, al di là dell’anticonformismo editoriale e delle
suggestioni artistiche, Longanesi aveva svelato il mistero della fotografia.
Aveva capito che la visione di un mondo simulato, parallelo al nostro di ogni
giorno, dove il tempo e lo spazio, immobili e astratti, appaiono come
“morti”, avrebbe potuto sconvolgere e forse angosciare il pubblico,
ma di certo non avrebbe mai cessato di sedurlo, coinvolgerlo e renderlo sempre
più partecipe. Perché da una parte esso avrebbe continuato a lasciarsi
avvincere dall’idea di recuperare la vita che passa davanti a suoi occhi; e
dall’altra sarebbe giunto, con spietato cinismo, all’ineluttabile scoperta che,
in fondo, tutto questo è frutto di una mera, per quanto necessaria, illusione.


Già allora la percezione paradossale della realtà plasmava
le reazioni e i comportamenti umani, guidava le aspettative e le convinzioni,
creava nelle persone stati di dipendenza quasi narcotici.

Ciò che la gente si abituava a vedere in fotografia,
diventava il feticcio di una moda insostituibile. La contemplazione coatta, fin
nei minimi macabri particolari, di un “cadavere”, ad esempio, si
consumava come un divertimento ossessivo e innescava il bisogno duraturo di
ricercare la morte ovunque, anche laddove, all’opposto, pulsava il piacere
erotico della vita.

La fotografia, idolo profano, meccanismo eccitante e
perverso, non comunicava all’intelletto razionale come predicava la dottrina
ideologica, ma soltanto ai sensi e alle passioni dell’animo.

Su questi postulati sarebbero sorte, negli anni a venire,
la pubblicità, la società dei consumi e l’industria culturale.

In tempi non sospetti, Longanesi aveva capito che l’unica
dittatura possibile era quella “mediatica”. E allora, parafrasando un
suo celebre motto, forse “Mussolini non aveva sempre ragione“, ma senza dubbio la
fotografia sì.

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[exibart]

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