Categorie: Fotografia

KENE/Spazio. Le fotografie di Mohamed Keita al Centro Pecci di Prato

di - 19 Febbraio 2020
Abbiamo fatto qualche domanda a Mohamed Keita, in occasione di “KENE/Spazio” che inaugura oggi, 19 febbraio, presso il Centro di arte contemporanea Luigi Pecci di Prato, a cura di Sara Alberani. Il progetto, ideato dall’artista, è promosso da Fondazione Pianoterra Onlus.
Sei arrivato in Italia che eri un ragazzino, 17 anni se non sbaglio. Come mai ti sei avvicinato alla fotografia da così giovane?
«Ero arrivato da poco a Roma. La notte dormivo all’aperto a via Marsala fuori dalla stazione Termini, il giorno frequentavo Civico Zero, un centro a bassa soglia per ragazzi migranti come me che aveva attivato da poco un corso di fotografia. Fino ad allora non avevo mai preso una macchina in mano, ma quella novità mi piaceva… Quando mi hanno dato la possibilità di usare la macchina usa e getta, sono andato dritto alla stazione per raccontare come vivevo: il cartone su cui dormivo, la busta di plastica in cui tenevo la coperta, una piccola borsa nera con tutte le mie cose. Quella foto l’ho fatta per me, non per mostrarla ad altri, e per tanto tempo me la sono portata dietro con me nello zaino, per ricordarmi da dove vengo.»
Quale è la prima foto che hai incontrato nella tua vita?
«In Africa la fotografia è molta diffusa. I negozi spesso sono tappezzati di immagini. Anche dove sono nato c’è uno studio di fotografia. La prima fotografia che ricordo di aver guardato con un po’ di attenzione è quella che i miei genitori si erano fatti fare in uno Studio e che conservavano a casa. Successivamente mi è capitato di incontrare dei fotografi anche durante il viaggio, ma allora non capivo davvero che cosa fosse e a cosa potesse servire… Non mi interessava, non gli davo importanza.»
I ragazzi che partecipano a questi laboratori che etĂ  hanno? Hai avuto modo di vedere se ci sono potenziali artisti o fotografi tra di loro, ma soprattutto, in questi laboratori hai anche modo di parlare loro delle potenzialitĂ  della fotografia tout court?
«Insegno fotografia ormai da 2013, da molto prima di tornare in Mali e di aprire lo spazio KENE. Insegnare mi piace perché ogni gruppo con cui lavoro ha un modo diverso di esprimersi, e perché insegnare è anche apprendere: insegnando impari a scambiare suggestioni, a condividere le idee, a stare bene con gli altri. I ragazzi con cui lavoro in Mali oggi hanno un’età compresa tra i 10 e i 18 anni, alcuni sono molto avanti, altri sono più indietro, ma tutti lavorano e partecipano ai laboratori insieme. Cerco di trasmettere il valore del lavoro di squadra, l’importanza di evitare atteggiamenti di superiorità. Spiego che nella fotografia la curiosità è importante ma da sola non basta. Serve la volontà di scoprire, l’impegno, il tempo di fare le cose bene. Ovviamente facciamo anche tanta pratica sul campo.  Ogni tanto, per stimolarli, li divido in gruppi e li faccio gareggiare. Poi rivediamo le immagini insieme e parliamo di quelle scartate per capire che cosa non ha funzionato.»
Questo progetto mi sembra davvero notevole, dal punto di vista artistico ma anche da quello sociale. Usare uno strumento culturale per coinvolgere bambini in una operazione altrimenti impossibile. Nello specifico cosa fate insieme?
«L’idea del progetto è nata quando sono tornato per la prima volta a Bamako per rincontrare mio fratello. In quella occasione ho incontrato tanti bambini e ragazzi che non sanno cosa fare della vita. Le scuole pubbliche sono poche, i meccanismi per entrare complicati e molte famiglie faticano a iscrivere i figli a quelle private. Visto che la fotografia è quello che so fare, ho immaginato di utilizzarla per creare un’alternativa alla strada. E così, grazie al sostegno della Fondazione Pianoterra, dopo qualche anno il sogno si è avverato. Da quando abbiamo completato la costruzione dello spazio, spesso i ragazzi si fermano a dormire, perché KENE non è solo un laboratorio permanente di fotografia, è una famiglia, un centro educativo. Un luogo nel quale si cresce tutti insieme.»

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