Categorie: Fotografia

La storia LGBTQ+, tra collage e found footage, nelle fotografie di Edouard Taufenbach

di - 22 Settembre 2020

“Suddenly, Last Summer” è il titolo perfetto per l’ultima esibizione del giovane artista francese Edouard Taufenbach. In tre parole riesce a esprimere la dicotomia presente-passato alla base del progetto: da una parte la scorsa estate, il riferimento al glamour vintage delle fotografie estive che ritraggono lo scenario LGBTQ+ in vacanza tra gli anni ’40 e gli ’80, e dall’altra improvvisamente, rimando al presente immediato, vivo e palpitante nella rivisitazione dell’artista attraverso l’utilizzo del collage.

L’esposizione è avvenuta in versione digitale sul sito della galleria Elizabeth Houston dal 3 giugno al 31 luglio, in corrispondenza del mese arcobaleno, è stata infatti pensata per celebrare il cinquantesimo anniversario della leggendaria Pride Parade newyorkese, inevitabilmente annullata causa pandemia. “Suddenly, Last Summer” contiene una selezione di immagini scelte fra quelle facenti parte del progetto Spéculaire, realizzato nel 2018 da Edouard Taufenbach. Spéculaire consiste in una serie di collage digitali creati a partire dalla collezione di fotografie del regista Sébastien Lifshitz, una raccolta di più di 10mila immagini scattate dagli inizi del ‘900 agli anni ’80 che, nel loro insieme, costruiscono un vero e proprio immaginario queer dell’epoca.

La gigantesca collezione di Lifshitz è stata esposta negli anni in prestigiose istituzioni – dal Centre Pompidou di Parigi al festival di fotografia Les Rencontres d’Arles – ed è stata pubblicata nel 2014 in un volume intitolato Les Invisibles, grazie a cui Taufenbach è venuto a conoscenza della straordinaria raccolta. Nel 2012 era uscito il film omonimo, firmato da Sébastien Lifshitz, vincitore l’anno seguente del premio César come miglior documentario. L’ispirazione per il documentario era venuta al regista proprio a partire dalla raccolta di fotografie e dai suoi protagonisti anonimi, di cui ha voluto riportare in vita le voci e le storie attraverso i personaggi di Les Invisibles: 11 persone di nazionalità francese, donne e uomini, tutti sopra i 70 e dichiaratamente omosessuali.

La tecnica di collage che Taufenbach ha utilizzato per modificare le fotografie, traslando e ripetendo in serie frammenti squadrati dell’immagine, spezza l’immobilità della foto stessa creando una sorta di illusione ottica che rende il contenuto dell’immagine più vicino alla sensazione di movimento che ci può dare un video. L’osservatore è portato così a immaginare la vita dei protagonisti, l’esperienza che stavano vivendo nell’istante in cui la fotografia è stata scattata e negli attimi successivi a quel momento. La sensazione quasi cinematografica trasmessa dalla tecnica di collage utilizzata da Taufenbach in Spéculaire deriva sicuramente – almeno in parte – dall’influenza che gli studi universitari in cinema hanno avuto sull’artista, nonché da suoi precedenti lavori basati sul found footage.

Abbiamo raggiunto Edouard Taufenbach, per farci raccontare qualcosa di più riguardo al progetto.

Ti è capitato di provare empatia verso i soggetti ritratti nelle fotografie durante il tempo passato a lavorare sulle loro immagini? Quali sono state le tue sensazioni?

«Mi immedesimo moltissimo nelle fotografie, talmente tanto che a volte mi capita innamorarmi solamente per un particolare sguardo o per un viso. Amo inventare storie, immaginare la vita dei protagonisti e cosa può essere capitato in quel momento prima e dopo lo scatto. Spesso mi capita di scoprirmi a condividere una sorta di intimità con queste persone, la loro immagine resta stampata nella mia memoria come se li avessi veramente conosciuti».

Come ti è venuta in mente l’idea di utilizzare questa tecnica di collage? Come hai percepito la trasformazione della fotografia a lavoro terminato?

«La tecnica del collage viene dai miei studi in cinema, ho riutilizzato esperimenti a cui ho lavorato in precedenza attraverso software di editing – ripetizioni, spostamenti, sovrapposizioni. Ho trasformato le immagini usando tecniche di frammentazione e giochi di scale per creare sensazioni sia fisiche che ottiche. È un lavoro che si concentra sul concetto di soggettività per rappresentare al meglio quelle che potremmo chiamare “immagini mentali” o ricordi visivi».

Dati i tuoi studi universitari in cinema, c’è qualche pellicola in particolare che ha ispirato questo progetto? Qualche allusione al famoso film Suddenly, Last Summer del 1959?

«In questo progetto ho giocato con il cinema e i suoi personaggi, riferendomi per esempio ad attori come Marlon Brando o a situazioni in particolare come per il triangolo amoroso di Jules e Jim. Il titolo dell’esibizione è un chiaro riferimento al film Suddenly, Last Summer di Mankiewicz, ma non c’è un collegamento diretto. L’ho scelto perché si riferisce allo stesso tempo sia al passato che, paradossalmente, al presente immediato, riflettendo esattamente quello che ho voluto rappresentare con le mie immagini».

Quali criteri hai seguito per la scelta delle immagini?

«La scelta delle fotografie è stata fatta a quattro mani insieme a Sébastien Lifshitz. Lui mi ha insegnato un sacco in termini di come osservare le immagini. Abbiamo inventato un gioco: ogni volta che ci incontravamo lui portava con sé una un plico di fotografie, io dovevo guardarle velocemente e selezionarne solo dieci fra tutte per allenarmi a scegliere istintivamente. Attraverso questi scambi abbiamo imparato a conoscerci e abbiamo sviluppato una sorta di meta-linguaggio tutto nostro».

Credi che un artista – durante i processi di archiviazione di immagini, oggetti, forme ed esperienze alla base del processo creativo – possa essere considerato come una sorta di collezionista?

«Indipendentemente dal mio lavoro artistico, colleziono tantissimi oggetti diversi: fotografie vernacolari, arte, ceramiche, carte da gioco e altro ancora. Sono convinto che esista un legame molto stretto tra la mia energia creativa e il mio desiderio di collezionare, qualcosa che si avvicina all’idea di un protocollo da seguire, o anche, scavando più a fondo, all’ossessione».

Nata a Modena nel 1998, sta concludendo la laurea triennale in Economia e gestione dei beni culturali e dello spettacolo all’Università Cattolica del Sacro Cuore, sede di Milano. Parallelamente ha lavorato come intern alla Collezione Maramotti a Reggio Emilia, e successivamente presso il Center for Italian Modern Art (CIMA) a New York.

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