Tratta dall’omonima rassegna ideata dall’artista e curatore indipendente Francesco Arena, la rubrica “OTHER IDENTITY – Altre forme di identità culturali e pubbliche” vuole essere una cartina al tornasole capace di misurare lo stato di una nuova e più attuale grammatica visiva, presentando il lavoro di autori e artisti che operano con i linguaggi della fotografia, del video e della performance, per indagare i temi dell’identità e dell’autorappresentazione. Questa settimana l’ospite intervistato è Federicaa.
Il nostro privato è pubblico e la rappresentazione di noi stessi si modifica e si spettacolarizza continuamente in ogni nostro agire. Qual è la tua rappresentazione di arte?
«L’abuso dell’immagine sociale è un’arma a doppio taglio per noi artisti. Molte persone hanno la cattiva abitudine di associare la fotografia ai social, quindi il lavoro di ogni professionista decade dietro alla presunzione comune. Questa è una cattiva abitudine quotidiana che ci da lo schermo che portiamo sempre in tasca.
Mentre, per esperienza personale, l’altra faccia della medaglia dei social è che il rapporto umano si è assottigliato: c’è una grande semplicità nello stabilire un contatto fra modelle/i che mai avrei pensato e questo mi sorprende e mi incuriosisce sempre.
Nell’arco degli anni tanti miei progetti sono nati tramite questa ideologia, mi piace eseguire dei piccoli test sociali: accomuno, all’interno di un solo set fotografico, diverse persone che non si sono mai viste ne hanno mai parlato fra loro e le do libera interpretazione delle mie idee. Ci sono volte in cui ci si allinea come una famiglia e altre in cui questo feeling non si crea mai».
Creiamo delle vere e proprie identità di genere che ognuno di noi sceglie in corrispondenza delle caratteristiche che vuole evidenziare, così forniamo tracce. Qual è la tua “identità” nell’arte contemporanea?
«Leggere prima di vedere. Ogni scatto è un concetto illustrato, una rappresentazione di ciò che voglio esprimere, prima con le parole e poi con le immagini. Mi ispiro ai problemi sociali che si affrontano, le piccole battaglie quotidiane che esprime la nostra società».
Quanto conta per te l’importanza dell’apparenza sociale e pubblica?
«Sono cresciuta in un contesto all’interno del quale contava di più ciò che si faceva prima di sapere come si era arrivati a farlo. Ora quello che vende è il percorso finale, chi c’è dietro. Tutti vogliono sapere di potercela fare, in maniera semplice e diretta, guardando solamente il risultato finale. Ecco, io non amo tutto questo e non amo far vedere il mio viso, perché, come dicevo, mi piace far vedere il mio lavoro, non influenzare nulla e lasciare che si sviluppi un opinione spontanea».
Il richiamo, il plagio, la riedizione, il ready made dell’iconografia di un’identità legata al passato, al presente e al contemporaneo sono messi costantemente in discussione in una ricerca affannosa di una nuova identificazione del sé, di un nuovo valore di rappresentazione. Qual è il tuo valore di rappresentazione oggi?
«Quando ero alle prima armi e non avevo un idea precisa di ciò che volevo rappresentare, scrivevo, tramite social, a tantissime persone che si rendevano disponibili come modelle/i, per chiedere di lavorare e farsi ritrarre da me. Mi capitò che una ragazza mi rispondesse: ‘ io non scatto con persone che non hanno un identità fotografica’. Questa frase mi lasciò veramente interdetta e mi fece rimuginare su tutto quello che avevo fatto fino a quel momento.
Siamo influenzati veramente tanto da quello che gli altri vedono di noi. I social ci hanno portati ad avere una insicurezza quasi cronica sulla nostra identità, sia artistica che personale.
Ora cerco sempre più di identificare ciò che scatto con le mie idee. Non ho la necessità di voler piacere sempre, ma voglio che il mio messaggio arrivi forte e chiaro».
ll nostro “agire” pubblico, anche con un’opera d’arte, travolge il nostro quotidiano, la nostra vita intima, i nostri sentimenti o, meglio, la riproduzione di tutto ciò che siamo e proviamo ad apparire nei confronti del mondo. Tu ti definisci un’artista agli occhi del mondo?
«Il mondo è il mio specchio, e in tutto il mondo c’è arte. Dalle nuvole alle radici, dalla punta dei nostri piedi fino alle ciglia. Viviamo in un universo fatto di cose meravigliosamente funzionanti che ispirano ogni giorno la vita e l’arte, mi sento parte di tutto questo e attivamente consapevole di tutto ciò».
Quale “identità culturale e pubblica” avresti voluto essere oltre a quella che ti appartiene?
«Sono molto affascinata dal cinema e dall’arte video rappresentativa. Un giorno vorrei fare qualche sperimentazione anche in quel campo».
Sono nata a Napoli e vivo a Rimini fin da piccola, quest’antica migrazione ha reso la mia sete di appartenenza qualcosa insaziabile e mai colmatile. Il mondo dell’arte mi ha sempre affascinata in ogni forma e ho sempre cercato di raggiungerlo ma senza troppa soddisfazione; la fotografia, in fine, ha soddisfatto ogni mio bisogno. Attraverso essa sono riuscita ad esprimere pensieri e ideali.
Ho iniziato come autodidatta scattando piccoli eventi, il mio compagno ha notato questa passione crescente e mi ha regalato la prima macchina fotografica, infatti, è anche grazie a lui che ho preso visione di quello che riuscivo a fare. Piano piano mi sono fatta strada all’interno di questo mondo pubblicando piccoli editoriali all’interno di riviste e collaborando con modelle e marchi di moda e non, abbastanza rinomati. Negli ultimi tempi il mio concetto di ritrattistica è notevolmente cambiato, mentre inizialmente ricercavo notorietà, ora la soddisfazione di rappresentare qualcosa che per me abbia un significato più profondo è ciò che mi interessa.
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