La fotografia può cogliere tutto: fatti, sentimenti, sensazioni, disastri, sogni e rocambolesche astrazioni. Ci ha sempre regalato la possibilità di capire il mondo, come in un infinito caleidoscopio. Paris Photo, la fiera parigina dedicata alle immagini, è da sempre un punto di riferimento internazionale per disegnare una cartografia sullo stato dell’arte e tentare di intuire delle traiettorie del presente come frecce per il futuro. Mantiene ancora oggi molto viva una vocazione di ricerca e di accoglienza: è sempre aperta all’entrata di nuovi Paesi per cercare di indagare le complessità umane, politiche, economiche ed esistenziali al di là dei confini.
Arte e reportage, sperimentazione e storia, nuove espressività digitali e interazioni con altre arti sono percorsi che si intrecciano al di là del mercato ma anche in dialogo con il mercato.
La direttrice artistica Anna Planas, a capo della fiera con la direttrice Florence Bourgeois, ci racconta questa edizione (per leggere il nostro report dal Grand Palais invece potete cliccare qui).
Avete definito questa edizione 2026 “con un carattere più internazionale”. Cosa vuol dire?
«Abbiamo coinvolto nuovi Paesi come quelli arabi: ci saranno per esempio la galleria di Ayyam ddi Dubai e la Hafez di Djeddah. Come una forte presenza di gallerie giapponesi. Inoltre se ne sono aggiunte altre che non erano mai state anche dall’Europa come la Crone di Vienna, Isabel Hurley di Malaga ed Eva Presenhuber».
Un altro aggettivo che ha usato per definirla è “rigorosa”. Cosa significa?
«La forza della fiera risiede in questa selezione esigente, che abbraccia sia la fotografia storica che le pratiche più contemporanee, comprese quelle digitali. Questa ambizione è sostenuta da comitati di selezione indipendenti per le gallerie e gli editori, nonché dal lavoro di curatori invitati su settori specifici come Voices, il digitale o il percorso Elles x Paris Photo. Il rigore significa fare in modo che Paris Photo rimanga un luogo di scoperta, riflessione e scambio, dove collezionisti, istituzioni e appassionati si ritrovino attorno a un programma che va oltre il semplice contesto del mercato. Ma si nutra di conversazioni, firme di artisti, mostre e presentazioni di libri che continuano a renderlo un appuntamento nella cultura dell’immagine nutriente e imperdibile nel calendario internazionale».
Il settore curatoriale portante della fiera, Voices, è affidato a Nadine Wietlisbach, direttrice del Fotomuseum Winterthur che esplora il tema delle relazioni comprendendo anche quello, molto segreto, del rapporto tra il fotografo e il soggetto fotografato. Ci dà qualche dettaglio in più?
«In questa sezione la fotografia è considerata come una pratica sociale, inscritta in condizioni materiali e strutture ideologiche. La presentazione intreccia liberamente racconti sulla parentela, seguendo le tensioni tra distanza e vicinanza, potere e cura e il modo in cui queste dinamiche possono essere tradotte dall’immagine fotografica».
Il secondo tema sviluppato per Voices da Devika Singh, storica dell’arte e conservatrice, mette in campo una riflessione sulle dimensioni sociali, politiche, ecologiche e personali del paesaggio…
«Questa sezione affronta il paesaggio da molteplici angolazioni: con un approccio documentario, il racconto personale o lo sguardo speculativo. Ma soprattutto quello che conta molto è che ce le offrono artisti mai presentati prima a Paris Photo. Le opere ci trasportano dal Libano del dopoguerra con le montagne nebbiose di Daniele Genadry, alle infrastrutture incompiute di Persepoli fotografate da Mohammad Ghazali, passando per i rifugi di fortuna dei contadini in lotta in India documentati da Gauri Gill. Ogni artista, a modo suo, ridefinisce il paesaggio nella fotografia e ne rivela le implicazioni sociali e politiche sottostanti, questa è la nuova lettura potente».
Avete anche dato maggiore spazio al settore Digital, dove la fotografia dialoga con le tecnologie attuali ma anche con la società e i suoi diversi contesto sociali.
«Fin dalle sue origini, la fotografia è stata un medium che si è costantemente ridefinito attraverso l’innovazione tecnologica. Questa edizione ribadisce l’esigenza di progetti impegnati e ambiziosi, proposti nel cuore della fiera.
Nel settore digitale, ad esempio c’è una delle più grandi opere d’arte generative mai create il progetto Giga, Un giardino di Cole Sternberg. Giga è il frutto di una partnership tra UNICEF e l’Unione Internazionale delle Telecomunicazioni (ITU), che ha commissionato all’artista concettuale californiano la creazione di un giardino come mezzo visivo per arricchire, intensificare e illuminare i dati sulla connettività scolastica globale raccolti da Giga Blocks.
Questo progetto rende disponibili online in modo permanente e pubblico i dati sulla connettività scolastica in tempo reale, così l’opera d’arte si trasforma e diventa più colorata per mostrare le fasi della connettività scolastica. A Garden celebra quelle connesse, dando visibilità e orgoglio a comunità spesso emarginate nei dibattiti globali.
Guidati dal potere trasformativo dell’arte, Giga e Sternberg invitano il pubblico a riflettere sul significato della connettività nel XXI secolo e a immaginare un mondo in cui ogni bambino, ogni giovane, possa beneficiare di informazioni essenziali, delle innumerevoli opportunità offerte dall’accesso digitale e della libertà di plasmare il proprio futuro.
Il progetto Dusseldorf invece crea un ponte tra la storia di questa città e l’evoluzione delle pratiche fotografiche. Si tratta di Düsseldorf and Photography, una mostra collettiva dedicata alle attuali pratiche fotografiche e digitali legate alla città che permettono che le mostra si rinnovi ogni giorno grazie all’uso dell’intelligenza digitale. Riunisce artisti il cui lavoro instaura un dialogo tra fotografia, processi e contesti digitali come Hedda Schattanik & Roman Szczesny e Johannes Raimann».
Più spazio anche a Emergence dedicato alla ricerca. Cosa è cambiato rispetto allo scorso anno?
«Il settore Emergence mette in primo piano ogni anno la giovane scena artistica. Quest’anno testimonia una forte vibrazione, superando i confini delle pratiche e delle frontiere con presentazioni di giovani artisti internazionali come Aton Atem del Sud Sudan, Camille Falquez, fotografa di origine colombiana con sede a New York, Suwon Lee, artista coreano-venezuelana, o il fotografo messicano Rodrigo Chapa».
Qual è l’impatto della fotografia oggi? Che mercato ha?
«La fotografia occupa da tempo un posto importante nelle collezioni. Fondata 28 anni fa, Paris Photo ha contribuito in modo significativo a mantenere viva questa tradizione e ha accompagnato un’intera generazione di collezionisti. Oggi sta emergendo una nuova generazione e noi lavoriamo per accompagnare questa evoluzione offrendo una gamma sempre più ampia di proposte».
La maggior parte dei curatori di Paris Photo è femminile. È una scelta?
«Paris Photo è diretta da dieci anni da una donna, Florence Bourgeois, la cui direzione è stata fonte di ispirazione per l’intero panorama culturale francese. Oggi si osserva un cambiamento radicale: sempre più donne ricoprono posizioni dirigenziali all’interno delle istituzioni artistiche. Il fatto che quest’anno il nostro team e i nostri curatori ospiti siano tutti donne riflette senza dubbio questo rinnovamento degli attori, nonché una generazione particolarmente impegnata e attiva nel mondo dell’arte».
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