Spesso nelle mostre d’arte contemporanea ci si trova a disagio di fronte a opere che sappiamo vogliono indurci a riflettere su qualcosa, ma che lasciano nell’espressione dello spettatore un imbarazzante punto di domanda, che talvolta non riesce a esser sciolto neanche dalle delucidazioni di cataloghi e curatori. Accade frequentemente di cimentarsi in complicate interpretazioni, ragionamenti e concetti ostici, in conclusioni poco plausibili. Cosa significa? Cosa vuol dire l’artista? Sono domande che suonano anche troppo scontate, ma che sono necessarie nell’approcciarsi a possibili spiegazioni che diano senso a ciò che si sta osservando.
Nel caso della mostra di
Michele Spanghero (Gorizia, 1979; vive a Ronchi dei Legionari, Gorizia), le risposte appaiono come un’illuminazione che rischiara i dubbi dello spettatore e lo lascia libero di osservare, pensare, riflettere. Scevro d’impacci intellettuali, il visitatore è indotto a ragionare su un tema carissimo all’arte, quello della percezione visiva. Un argomento che si trova a metà tra scienza e filosofia, e che l’invenzione della fotografia e del cinema ha reso assolutamente irresistibile per chiunque voglia approfondire le innumerevoli relazioni tra oggetto e immagine riprodotta.
L’occhio e l’obiettivo fotografico, la pellicola e la retina, la realtà e la sua rappresentazione. Questi gli spunti di Spanghero, che affronta la questione rapportandosi col mezzo digitale. Il progetto trova ispirazione in una teoria di Gilles Deleuze, secondo cui le immagini esistono già nella realtà e vengono tradotte e rese leggibili attraverso un supporto traslucido che possa trattenere la luce emanata dagli oggetti.
Dunque, la fotografia non crea immagini, ma le porta in superficie, le trasporta servendosi del traslucido. L’artista nel suo lavoro indaga proprio il processo per il quale le immagini emergono e prendono forma. Un video posto al centro dello spazio trasmette in loop la formazione di un’immagine digitale. Come lo sbocciare di un fiore che nei documentari si palesa in pochi secondi, così, all’inverso, un’impercettibile metamorfosi genera, attraverso la dilatazione esasperata dei tempi, una forma compiuta, che una volta svelatasi ritorna lentamente allo stato nebuloso d’origine. Alle pareti della galleria vi sono dei particolari fotografici del processo, che documentano l’evolversi dell’insolita trasformazione e che permettono di osservare alcuni momenti del video.
Quale modo più semplice e immediato per riflettere sulla realtà, la percezione di essa e la sua rappresentazione fotografica, se non quella di una lentissima messa a fuoco? La schiettezza di
Traslucide ha il gusto della limpida intuizione e, come tale, è diretta e chiaramente comprensibile.
Le considerazioni che ne derivano sono soggettive; l’unica cosa che sembra certa è che, come suggerisce il curatore Daniele Capra, “
nell’essere spettatori non è la realtà ciò che vediamo bensì la sua mediata trascrizione traslucida”.