La convinzione che un tipo di
linguaggio seduttivo si riveli il modo più eloquente per arrivare al pubblico è
divenuto uno dei capisaldi della poetica di
Francesca Martinelli (Udine, 1978). La sua ricerca
indaga le potenzialità del corpo come cartina di tornasole in grado di
esternare il complicato universo interiore dell’uomo. Mimetizzandosi nei nuovi
spazi della galleria, i
tableau vivant, le fotografie e le sculture in mostra sembrano
far parte del compendio d’arredo del luogo, integrandosi perfettamente con i
preziosi oggetti di design esposti.
Una vasca da bagno smaltata
rappresenta le ceneri di una performance la cui interprete è una Ofelia
contemporanea, compianta e assistita da un discutibile Amleto, vestito con uno
sgargiante intimo di Superman: la nitida spregiudicatezza delle fotografie
esposte dissimula la tragedia raccontata nella storia originale e
contemporaneamente la carica di significato, catapultandola in un
hic et
nunc che rende
intramontabile il dramma shakespeariano.
Ancora un riferimento a un
racconto intramontabile è il mito reinterpretato da Martinelli in
The
Violent Eurydice,
in cui una donna-bozzolo avvolta in un manto di capelli (evidente metafora di
Orfeo) si trova distesa in un cimitero di preziosi e decadenti lampadari a
goccia, come simboli della luce che porta all’Ade.
L’ingresso dell’artista in
scena come performer principale è segnato da un’escalation musicale culminante
con l’angosciante
We Have Arrived di Aphex Twin, che sembra comandare inesorabilmente i
gesti meccanici e violenti dell’artista nel tentativo fallimentare di dipanare
la matassa organica in cui è avvolta la testa di Orfeo, contemporaneamente
reliquia e feticcio su cui Euridice riversa il proprio amore.
Protagonista di
Wound è invece una giovane donna che
mostra se stessa e il suo corpo in seguito a svariate operazioni di
automutilazione. La confezione con cui ci è però offerta la visione di questa
donna – il morbido divano rosso a forma di bocca su cui è seduta, la parrucca
biondo paglia e le scarpe sgargianti che indossa – sdrammatizza la situazione,
abbassandone il tono con una buona dose d’ironia. Il suo dramma è esorcizzato
senza alcuna vergogna, anzi esibendo al pubblico un kit assortito di tutti gli
strumenti per infliggersi del dolore.
Il corpo della performer,
interamente coperto di seicento cerotti che sembrano sostituire la sua pelle, è
totalmente indifferente ai valori morali predicati dal buon costume. E si
carica drammaticamente, con leggerezza e superficialità solo apparenti (per
renderne meno pesante la fruizione), di tutte le pressioni sociali a cui è
costretto ancora oggi l’universo femminile.