La città è ambientazione, dalle rappresentazioni dell’urbe antica a quelle della metropoli industriale, degli smarrimenti di artisti e poeti. È lo schermo su cui vengono proiettate utopie e scambi, perdite o conquiste.
Le città di Johnatan Guaitamacchi (Londra, 1961) non presentano nulla di tutto ciò, manifestano piuttosto la solidità del tessuto urbano, impaginato in costruzioni cristalline e monolitiche. I suoi paesaggi metropolitani, infatti, sono privi di qualsiasi tipo di apertura dinamica, ben lungi dal rappresentare scambi culturali, sociali o semplicemente umani. Cadenzate da un taglio prospettico totalitario (Zooming in 1 2006), le vie della metropoli procedono facendo perdere nell’inclinazione dell’orizzonte la finitudine della città, che sconfinata si allunga in uno spazio composto da moduli ripetuti con cadenza solitaria.
Per quanto Guaitamacchi parta da una radice contingente –la sua personale esperienza di città come Milano, Londra, Città del Capo– la metropoli per lui è un’estensione ideale fatta di edifici privi di specificità e identità. La serialità delle architetture –dalle quali quasi come per errore talvolta si differenzia qualche edificio- parla di un’omologazione estetica e formale rotta solo dall’incessante flusso del movimento sulle grandi arterie stradali e ferroviarie (Ring Road, 2006), unica potenziale testimonianza di un’esistenza umana. Eppure, anche in queste visioni, è spesso difficile stabilire se si tratta di strade deserte o vissute.
L’accostamento, nelle tele, di tratti grafici quasi illeggibili o codici segnici sconosciuti (Cape Town Memory , 2006), sembra voler raccontare di una realtà matematica, algoritmica, vivente e sussistente in sé per sé. Una sorta di realtà meccanica che si auto-forgia è la chiave disumana e snaturata di una città vissuta solo da edifici industriali. La presenza umana non è contemplata, né tanto meno indispensabile. Ed è proprio il contrasto tra la metropoli reale, che esiste perchè costruita, abitata e vissuta dall’uomo, e la sua rappresentazione in queste tele, come realtà autosufficiente, che strazia. La città esiste in sé per sé.
Ciò si ritrova, in una dimensione diametralmente opposta, nelle visioni dei ghiacciai (come Ice1 , 2006), in cui la natura, sublime nella sua magnificenza, esiste meglio se non contaminata. La sua energia divina, mitica e atavica –a differenza della città– non è derivata dall’uomo, ma prodotta dalla sua stessa grandezza e potenza. Nella metropoli l’assenza dell’uomo è un gioco ossimorico, nei ghiacciai una negazione necessaria.
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l'artista piu' brutto dopo berutti e la cinelli!
Non è vero!!! c'è di molto peggio!!!!