“
Cara Emily, disegnare la paura e lo sgomento è colmare un abisso con l’aria”. Come in un incipit epistolare,
Cesare Viel (Torino, 1964) si specchia nei versi dell’amata Dickinson: “
Per chiudere un vuoto, riempilo con ciò che lo ha generato. Chiudilo con qualcos’altro, e si spalancherà di più. Non puoi colmare un Abisso con l’aria”.
E invece sì che si può. L’essenziale disegno su cui è annotata la frase di Viel riprende un’immagine mediatica del G8 di Genova; altri ricalcano scene drammatiche d’attualità, come il volo disperato di un uomo lanciatosi delle Twin Towers. Ancora una metafora del vuoto, della paura: quell’inspiegabile non-senso di cui è intrisa la trama della storia. Assumendo la grana sottile e densa dell’aria, del fiato, della parola, la pratica del disegno schiude il senso provvisorio e lirico con cui è possibile colmare quell’abisso.
È proprio la relazione tra parola, scrittura, identità e politica che nutre la poetica di Viel, ben rappresentata da quest’ampia personale: non una retrospettiva, ma un percorso ragionato intorno ad alcuni temi affrontanti nell’arco di vent’anni.
La scrittura, per Viel, è esperienza performativa ed esistenziale: un piano in divenire che fonda il pensiero, portando il peso del corpo. Con
Luca Vitone, nel 2001, riflette sulla trasmissione del sapere in relazione all’identità maschile: i due citano su una lunga pergamena centinaia di “padri intellettuali”. Nascosti tra i nomi celebri, anche quelli dei veri papà.
Della performance dedicata a Ingeborg Bachmann non resta che un pannello su cui sono trascritti i gesti compiuti in quella camera romana, adiacente all’appartamento in cui la scrittrice austriaca perse la vita. L’azione, volutamente non documentata, r-esiste solo nella memoria dell’artista e dei pochi spettatori presenti, oltre che nel
dopo delle parole stese sulla pagina. Nulla di più prepotente del nesso fra tempo, morte e scrittura.
E il pensiero va a Virginia Woolf, di cui Viel nel 2004 assume aspetto e identità. Seduto in poltrona, al centro di un salottino
british, ascolta la propria voce registrata che recita un brano di
To the lighthouse. Sul filo di tematiche femministe e post-strutturaliste, la questione dell’identità di genere incontra il teatro e la letteratura, luoghi in cui si articolano i rapporti tra parola scritta e parola pronunciata, presenza e assenza, verità e artificio. L’anno dopo, alla Rocca sforzesca di Imola, un nuovo esperimento di com-passione e immedesimazione. Viel monta su un lettino alto cinque metri e rievoca la condizione di segregazione vissuta da Dino Campana in un ospedale psichiatrico della città emiliana, un secolo prima. La scrittura compulsiva a cui l’artista s’abbandona lo libera e insieme lo inchioda a una vertigine onirica.
Ritorna il senso del vuoto, ossessivamente. Di
Operazione Bufera è ricostruito il set: le tre file di poltroncine rosse, la voce di Viel che racconta il fatto. Poi, una foto di lui con la testa all’indietro, gli occhi bendati, la bocca dischiusa. Stava lì, nel 2003, su una di quelle poltrone, a interpretare una vittima della strage avvenuta al teatro Dubrovka di Mosca, dopo l’assedio di un gruppo di indipendentisti ceceni. Il lungo monologo confonde i pensieri degli ostaggi e dei terroristi, in un implacabile gioco di ruoli. Scorrono le parole nell’aria, inesatte, cangianti, leggere. Provando a colmare l’abisso, come segni decisi sul foglio.