Se vogliamo individuare dei topos nella storia dell’arte, il ritratto è certamente uno di questi, costante nucleo d’indagine nei confronti della natura umana, del sé e dell’altro. Accostandosi ai lavori di Matteo Basilè (Roma, 1974) salta subito agli occhi come egli reinterpreti il genere, agganciandosi con risolutezza agli aspetti più marcati del panorama mediatico contemporaneo. L’intervento digitale trasuda prepotentemente dalla superficie dell’immagine fotografica, come una patina che congela i soggetti, li fissa in uno spazio che è solo virtuale e li riveste di tonalità fredde. E se storicamente, nel ritratto, si è sempre cercato di ricavare non solo il simulacro di un individuo, ma anche di farne affiorare la vita e l’anima, in questo caso ci troviamo invece di fronte a personaggi esangui, icone tanto intense quanto esistenzialmente opache, isolate e prive di contesto, sfumate nella sublimazione di una regione sconosciuta: una società delle immagini che si configura come una sorta di mondo parallelo, un’interfaccia tra sistemi percettivi e cognitivi, tra sorgente e ricettore. A segnalare ulteriormente questo scarto, giocando sul diverso grado di trasparenza e sul contrasto e l’improvvisa esplosione di colori accessi, s’interpongono forme irregolari e astratte che includono una porzione di figura, forse la zona di maggior concentrazione drammatica e di energia, un ipotetico cuore tecnologico funzionante come una firma sull’anatomia compositiva.
Basilè indaga l’uomo disumanizzandolo, sperimenta sui linguaggi visivi ibridandoli, e facendo questo sopraggiunge in quella terra di nessuno (No man’s land è il titolo della mostra) dove il tanto abusato termine “contaminazione” trova forse un utilizzo appropriato, ad indicare quanto la natura, affetta dalla manipolazione digitale, muti la propria essenza.
La commistione non riguarda
L’asettica perfezione formale e l’approccio estetizzante, sembrano essere intenzionalmente incrinati dalla presenza di sottili crepature in superficie, o da una piccola mosca posata sul candore dell’epidermide, che tuttavia finiscono per rivelare ancor di più l’artificiosità dell’insieme. L’innegabile forza attrattiva di tali eccentrici personaggi, la poesia e la bellezza dei volti e degli sguardi delle giovani donne, si manifestano quindi come vittime di una metamorfosi che esalta il valore dell’inautenticità. E dell’invenzione.
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