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La lavagna

di - 31 Luglio 2014
A poche ore da quello che si paventa come un vero e proprio sgombero del Teatro Valle Occupato, che speriamo almeno non sia violento come quello avvenuto nei giorni scorsi al Cinema Volturno, questa probabile fine dell’esperienza della Fondazione Teatro Valle Bene Comune assume un valore decisivo, persino simbolico, per tutti noi.
Anche se non ho molto da aggiungere a quello che sulla questione hanno giĂ  scritto Christian Raimo su Minima&Moralia www.minimaetmoralia.it/wp/e-finito-il-valle/, e Massimo Marino su Doppiozero
www.doppiozero.com/materiali/commenti/teatro-valle-il-bacio-di-giuda, non riesco e non voglio tacere aspettando passivamente gli eventi.

I fatti sono ormai stranoti, tanto quelli dei tre anni di occupazione che quelli di questi giorni, e non starò qui a ripeterli. Ribadisco solo che per oggi è stato emesso un invito che assomiglia moltissimo ad un ultimatum, e che impone “la consegna del Teatro Valle alla Soprintendenza per i lavori entro la data del 31 luglio 2014.”.
Ho visto nascere l’occupazione del Valle. In quegli stessi giorni del 2011 l’arte contemporanea romana dava vita al movimento Occupiamoci di Contemporaneo, da cui sarebbe nata la Consulta per l’Arte Contemporanea di Roma. Sono stato al Valle in quei giorni, e con me tantissimi del mondo dell’arte, e ci siamo tornati per vedere spettacoli, concerti e performance. L’arte stessa è stata più volte ospitata dagli occupanti. Conosco bene alcuni di loro e ho imparato in questi anni il rispetto per chi mette in gioco tutto per difendere le proprio idee, forti della convinzione che esiste un’alternativa nella gestione della cultura a Roma e in Italia. Molti di loro oggi sono ancora e molto motivati, ma anche stanchi. E come potrebbe essere altrimenti?

Cos’altro potevano fare, oltre quello che hanno fatto, per dimostrare che l’illegalità era stata superata da un processo di legalizzazione condiviso da giuristi, economisti, intellettuali, artisti, persone sinceramente interessate alla cultura, e persino alcuni politici?
Cos’altro potevano fare, oltre quello che hanno fatto, per dimostrare che l’occupazione si è da subito trasformata nel ben diverso prendersi cura di un luogo e di un’idea di cultura, che è senza alcuna retorica un ideale, ma evidentemente non un’utopia?
Cos’altro potevano fare, oltre quello che hanno fatto, tanto da vedere riconosciuto il loro impegno e la qualità della loro proposta finanche fuori dai confini nazionali?
Se la loro colpa è stata quella di non pagare bollette e diritti d’autore, mi domando se in questo computo da ragioniere che la Corte dei Conti si è presa la briga di fare, e che con buona probabilità è all’origine della decisione di emettere l’ultimatum, è compreso il lavoro che moltissimi hanno prestato per tentare di cambiare le modalità, ormai chiaramente insufficienti, con le quali oggi in Italia si gestiscono le istituzioni culturali. Tutti loro non hanno diritto ad un compenso?  Perché non chiedere alla collettività se il lavoro di questi anni non sia in grado di compensare quei costi? Perché non chiedere alla Siae se quanto fatto non corrisponda ad una difesa di principio, e con analogo valore economico, del lavoro degli autori e degli artisti?

Quello che però mi preme davvero dire è che se la conclusione di questo percorso sarà quella di uno sgombero coatto, allora avremo perso tutti. Ma prima di ognuno di noi, avrà perso la politica, colpevole di non avere la capacità, e forse anche la volontà, di immaginarsi come interlocutore di un cambiamento che parte dal basso, che fornisce nuove soluzioni alle criticità in atto nel sistema culturale, e che pone persino le premesse per uno sviluppo economico e produttivo per nulla scontato. Da questa colpa gravissima, la peggiore possibile per la politica, non sarà possibile emendarsi in alcun modo, perché oltre a dimostrare l’incapacità di ascolto e di dialogo, da cui trarre indicazioni per decidere, essa mostrerà impietosa la mancanza di una visione di un’Italia sul serio diversa e migliore.

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