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La lavagna

di - 16 Giugno 2015
Ad onor del vero, sono stato l’unico (tolto il critico de “Il Giornale”), nel 2011 ad aver scritto un articolo positivo sul padiglione italiano della Biennale curato da Vittorio Sgarbi. Ricordo che mi feci dei nemici. Poi con gli anni, in molti hanno compreso ciò che allora mi pareva evidente, e cioè che quel brutto carnevale di oggetti vari ed eventuali era una fotografia veritiera e impietosa del mondo dell’arte. Ci scopriva autoreferenziali, inutili, illusi, pasticcioni, nepotisti, ignoranti, eccetera. Ma non solo noi italiani, tutti, perché non si sentiva stacco fra le opere interne al padiglione e quelle collocate nei dintorni da Bice Curiger. Dissi che quella mostra non era più brutta della “Younger than Jesus” che aveva spopolato al New Museum pochi mesi prima a firma di Massimiliano Gioni e potrei dire che non è peggio dell’attuale Biennale di Okwui Enwezor. Si somigliano troppo. E noi tutti, ancora, somigliamo troppo a quel padiglione. E questo, in sintesi, è il problema. Demonizzare – come si fece allora – non serve a cambiare la verità. Anzi, forse fornisce degli alibi per nasconderla senza avere il coraggio di affrontarla. Per cui, anche stavolta farò esercizio di crudeltà e, controcorrente, salverò il salvabile del padiglione italiano di Vincenzo Trione.
Come Sgarbi non lo amo come critico, né lo conosco personalmente. Il suo padiglione però non è lo scandalo che ho letto su varie riviste. Trione, a differenza di alcuni suoi recenti predecessori, ha fatto ciò che ha voluto e lo ha fatto secondo le sue intenzioni, riuscendoci (è questa la differenza). Che io non condivida è una cosa, ma un conto è una mostra brutta o inutile come i padiglioni precedenti al suo, un conto è una mostra che non si condivide. Se l’avessimo vista altrove, al Madre, per esempio, dove Trione lavora, ovvero in un museo già diviso in piccole stanze (che non ci avrebbero fatto pensare quanto l’allestimento dell’arsenale limitasse di per sé il respiro delle opere), potrei dire che forse ci sarebbe anche piaciuta. Non avremmo magari condiviso la metodologia professorale che tratta gli artisti e le opere come elementi argomentativi all’illustrazione di una tesi, ma lui l’ha ribadito di non essere un curatore e così, volontariamente ha composto una specie di libro piegando tutto e tutti al suo volere. Il libro però si legge chiaramente e la tesi, in fondo, anche se in un clima un po’ stantio (e non potrebbe essere altrimenti se si mettono gli artisti al guinzaglio) è dimostrata.
Trione comunque, il suo dovere lo ha fatto e lo ha fatto anche bene. Magari non ci interessa il libro che ci ha fatto leggere, ma perché siamo tutti così (tanto, troppo!!) arrabbiati, scandalizzati per questo padiglione che è stato l’unico tra i recenti ad essere pugnalato non solo alle spalle?
Non ci piace probabilmente il modo in cui il ministero lo ha istruito e poi approvato. Perché è il ministero ad aver commissionato una collettiva ed è il ministero ad aver scelto il progetto di Trione che semplicemente può essere definito come la mostra giusta (?) nel posto sbagliato. Una mostra professorale non è cosa che vada bene in una biennale. Tutto qui. È una questione di furbizia più che d’intelligenza. È come andare a Miami Basel con uno stand di Emilio Prini.
A Venezia i padiglioni nazionali vanno con progetti semplici, d’impatto fulminante e in grado di emergere immediatamente in un caos di opere che sovraccarica la mente e l’attenzione. Io stesso non ho apprezzato a dovere un progetto sofisticato come quello del padiglione austriaco per averlo visto ormai di sera, portandomi addosso un bagaglio d’immagini troppo soffocante per il respiro ampio che Heimo Zobering chiedeva. L’ho recuperato giorni dopo, a mente fresca. Ha ricevuto ottime recensioni, invece, il Giappone con un’opera della Shiota sempre uguale a sé stessa, ma che si è presentata preparata al grande pubblico con un numero pulito e d’impatto. In equilibrio perfetto tra questi due estremi – e quindi meglio di loro – è andato Dahn Vo per la Danimarca, che, infatti, si è fatto apprezzare da tutto l’arco costituzionale del pubblico. Fuori dai giardini, l’operazione è riuscita all’Islanda che ha posto una questione di grande interesse e civiltà attraverso il progetto di Christoph Büchel e all’Estonia con una mostra che ha raggiunto forse la sintesi migliore fra qualità artistica, forza politica e bellezza dell’allestimento con la “storia di un presidente” raccontata da Jaanus Samma e curata dall’italiano Eugenio Viola.
E così, senza farlo apposta, parlando di chi ha azzeccato questa Biennale, ho citato ad esempio tutti padiglioni di artisti singoli. Vorrà pur dire qualcosa? Certamente. Ma non è nemmeno questo il punto. La verità è quella che accennavo poc’anzi, ovvero che le grandi mostre internazionali non sono – come le fiere – i luoghi dell’arte pura. Per quello ci sono gli studi degli artisti, le loro storie personali, i musei, o i molti spazi-progetto, come quelli in cui negli Sessanta e Settanta prendevano forma le importanti mostre di ABO o di Celant, e che restano anche oggi i luoghi d’incontro ideali per i curatori e gli artisti migliori. Una biennale come quella di Venezia è, invece, una occasione politica, un campo in cui si misurano i muscoli culturali di diversi Paesi. E, come negli scacchi, una mossa dev’essere funzionale alla partita, non importa quanto bella sia se poi si perde. Tutto si gioca sulla strategia e a giocare sono i ministeri. Il nostro, però, sarà bene ricordarlo, è quello che nell’unica occasione internazionale che ha per mostrare la qualità della sua arte ha preferito cedere il grande e glorioso padiglione di Paese ospitante ai Giardini in cambio di due fienili nella periferia dell’Arsenale. Sarà mica per questo in realtà che ce l’abbiamo tanto con Trione? Perché ha fatto bene il lavoro che il nostro ministero gli ha chiesto? Forse è così. O forse è solo perché neppure Trione è riuscito a fare un padiglione migliore (più onesto, più crudele, più sfacciatamente vero) di quello di Sgarbi. E questo ci brucia. Perché ancora – come dice Giulietta Masina dopo il pellegrinaggio al santuario ne Le notti di Cabiria – “non siamo cambiati”.

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