Annus horribilis. Il 2012 è stato funesto per la gran parte dei musei di arte contemporanea italiani, e il 2013 è iniziato sotto auspici forse peggiori, con pressanti richieste di disinvestimento e appelli bipartisan alla dismissione delle già esigue politiche culturali pubbliche a sostegno dell’arte contemporanea.
La “crisi” non è solo locale: rimanda a una flessione globale di autorevolezza e prestigio del contemporaneo.
La riduzione della capacità produttiva e nel peggiore dei casi la chiusura di un museo procura sconcerto. Ma è questa la reale situazione in cui versa la maggior parte dei musei italiani.
Lo Stato italiano manca non da oggi di una seria politica di tutela e promozione del contemporaneo. Non sono credibili i musei o le collezioni che si improvvisano tali per iniziativa personalistica, in assenza di un progetto di ricerca; non sono seri, o sono progettati in modo colpevolmente improvvisato e casuale, i musei il cui budget è tutto o quasi impegnato dalle spese di gestione.
Il museo è un “bene comune”: contribuisce al benessere comunitario se consolida pratiche di rigore e trasparenza, distribuisce lavoro qualificato e patrocina modelli di equità. Proprio per questo l’investimento in arte non deve accompagnarsi a argomenti rigidamente economici: il criterio della redditività immediata impone un insostenibile contesto di concorrenza a processi il cui beneficio è sul medio e lungo termine.
Ma a questo punto dovremmo intenderci su che cosa sia “arte contemporanea”, perché e a quali condizioni il sostegno pubblico all’arte contemporanea debba necessariamente trovare cittadinanza nel contesto di una democrazia partecipata. Che cosa qualifica un “museo” o un “centro” di arte contemporanea in un contesto come quello italiano e può giustificare spesa pubblica?
Riteniamo che una politica culturale pubblica sia chiamata a potenziare i compiti di agency, cioè di “pieno sviluppo della persona”; e a rimuovere “gli ostacoli di ordine economico e sociale” richiamati dall’articolo 3 della Costituzione italiana. Stabiliamo un ulteriore punto, che può sembrare paradossale. L’istituzione pubblica (o pubblico-privata) di cui parliamo, il museo appunto, esiste prioritariamente per i cittadini: né per gli sponsor, cui è certo possibile riconoscere un ruolo ma nell’ambito di poteri d’indirizzo e controllo esercitati in autonomia da responsabili scientifici, né per politici che intendano fregiarsi del ruolo di protettori delle arti. Questa stessa istituzione è chiamata a conferire sostanza culturale specifica a istanze generali di equità, trasparenza, redistribuzione di opportunità.
L’opera d’arte (contemporanea), se tale, ha un valore intrinsecamente civile e “politico” e non ha bisogno di accogliere “contenuti” esteriori per giustificare la propria necessità sociale. L’incontro con l’opera d’arte sollecita l’osservatore all’interpretazione, a percorsi sperimentali di verifica e autocorrezione, all’interrogazione costante. Per i caratteri di microinfrazione, testimonianza e gioco (con convenzioni, codici e aspettative), l’opera d’arte contribuisce a formare un’opinione pubblica consapevole e indipendente, pronta a considerare criticamente un documento, l’autorità della tradizione o la validità di un enunciato.
Irresponsabilità sociale, mutazione “antropologica” del collezionismo finanziario, conformismo corporate: tutto questo congiura, inutile negarlo, e induce al disincanto. In breve: la “differenza” etica, culturale, “antropologica” dell’artista, rivendicata ancora dalle neoavanguardie degli anni Sessanta e Settanta, appare compromessa. Non è semplice ricostruire un’autorevolezza smarrita. Quale solidità avrebbe peraltro un simile tentativo? Potremmo supporre che sia ormai inevitabile contestare i confini istituzionali di ciò che si riconosce come “artistico”. E se cercassimo di definire in modo nuovo l’”arte” collocandola nel punto d’intersezione tra attività estetiche e “servizi” alla comunità, addirittura sul piano delle iniziative per la legalità, il lavoro dignitoso, la difesa dell’ambiente, l’economia di relazione, l’immaginazione di modelli altereconomici? O sul piano della conoscenza e della trasmissione dei saperi? Se passassimo insomma da una considerazione unicamente estetica dell’opera al riconoscimento di una sua funzione civica?
L’Italia è all’ultimo posto in Europa per percentuale di spesa pubblica destinata alla cultura: 1,1% a fronte del 2,2% dell’Ue a 27. Al penultimo posto, seguita solo dalla Grecia, per percentuale di spesa in istruzione: 8,5% a fronte del 10,9% dell’Ue a 27. La recente pubblicazione della ricerca Eurostat sulla spesa pubblica nel 2011 fissa numericamente i termini della questione. Non ha senso schierarsi contro l’intervento politico-culturale pubblico e un preteso “dirigismo” o “statalismo” culturale del Paese, che non esiste: esistono invece malfunzionamento, allocazione impropria di risorse, sperequazione nella spesa pubblica.
Una ricerca recente del Centro di ricerche sulla gestione dell’assistenza sanitaria e sociale dell’università Bocconi (Cergas) mostra come l’impegno pubblico pro capite sia in Italia sensibilmente inferiore alla media delle maggiori nazioni europee, Francia e Germania in testa. Gran parte della spesa pubblica italiana va in previdenza (*): l’Italia è il paese europeo dove il welfare contribuisce meno alle politiche di sviluppo (che includono o dovrebbero includere le politiche culturali) e la redistribuzione intergenerazionale delle risorse.
Con opprimente scarsità di lessico, cognizione specifica e immaginazione gli economisti della cultura invocano da anni (o piuttosto intimano) strategie di rilancio del “capitale umano”. La locuzione non ci appassiona: come che sia, è evidente che proprio la disseminazione di offerta culturale innovativa, se associata ad ampi, durevoli e qualificati processi educativi, può aiutare a trasformare tratti antropologico-culturali ritenuti svantaggiosi. Ma non dovremmo restringere il punto di vista alla sfera economica, concentrandoci su commercio e impresa. Esistono innovazioni (sociali e istituzionali) che combattono esclusione o privilegio: meritano la nostra più grande attenzione anche se non contribuiscono direttamente alla crescita del PIL. L’offensiva neoliberista contro i saperi umanistici e la tradizione delle arti “liberali” impone a artisti, critici, curatori di ridefinire il museo sotto profili di resistenza culturale, in termini di etica del dono; e di sostituire alla dispendiosa ricerca del “grande evento” virtuose routine di restituzione.
Al fine di ridefinire le politiche culturali contemporaneistiche in Italia nell’ambito delle arti figurative e di segnare una drastica discontinuità chiediamo di:
- creare un coordinamento permanente e qualificato di professionisti di indiscussa reputazione scientifica, artistica e curatoriale che avvicini il mondo della produzione e il mondo della ricerca, oggi eccessivamente separati; e stabilisca un dialogo tra politiche espositive, politiche dell’istruzione e innovazione culturale.
- avviare una riflessione pubblica tra esperti e professionisti del settore sul ruolo del Ministero per i Beni culturali in tema di arte contemporanea, al fine di giungere in tempi brevi a un progetto di politica culturale e assetto istituzionale. Potrà essere utile, in un contesto di risorse decrescenti, individuare poche istituzioni museali cui destinare larga parte degli investimenti.
- elaborare un protocollo per la valutazione del merito nei vari ambiti della ricerca storica, teorica, artistica e curatoriale; e adeguare i bandi nazionali per l’assegnazione di incarichi e risorse a standard internazionali.
- sollecitare una profonda mutazione della diplomazia culturale italiana, prevedendo bandi pubblici trasparenti per incarichi presso gli Istituti italiani di cultura e la creazione di un’infrastruttura equa e efficiente di politica estera culturale.
- stabilire la priorità civile, pubblica, educativa e sociale del museo e dell’istituzione culturale pubblica, con una chiara differenziazione tra obiettivi pubblici e obiettivi privati dell’investimento culturale.
- che vi sia una netta separazione tra potere politico e ricerca nei più diversi ambiti contemporaneistici di ricerca, in primo luogo università, musei, accademie.
Michele Dantini e Raffaele Gavarro
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Caro Raffaele,
sottoscrivo la lettera redatta con Dantini e aggiungo una riflesione.
Nel rapporto tra istituzioni e arte è insita la relazione particolare tra avanguardie e classe media specialmente quando quest'ultima e quella di un paese dalla modernità irrisolta che, di punto in bianco, si riconosce post - moderno. Un paese non avvezzo al senso critico della relatà frantumata in un mosaico informazionanale da saccheggiare a fini privati. Ora, senza invocare uno stato culturale alla Malraux e, di conseguenza, un suo museo immaginario, si possono ripercorrere i passi iniziati a Genova nel 63' da Eugenio Battisti per giungere a ragionare, come ha fatto la direttrice di questa rivista, sulla condizione del museo d'arte contemporanea nell'epoca dello Sboom.
In questo tragitto lungo mezzo secolo ci imbattiamo in una mutazione antropologica dominata dalla comunicazione che ha fatto dell'opinionista l'intellettuale capace di abilitare percorsi sommari in nome della divulgazione dimentico però dei contenuti più radicali e radicati nella parola "Arte".
Per questo nel futuro vorrei, quindi, che la ceca demabulazione fosse guidata da ciò che sappiamo, non da ciò che speriamo di sapere.
Un caro saluto
marcello
Caro Marcello, grazie per il tuo post.
L’idea è senz’altro di essere guidati da quello che sappiamo. Anche se personalmente cerco di non perdere mai le tracce del molto che di sicuro ancora non so.
In ogni caso il momento è difficile e temo che lo sarà ancora di più nel prossimo futuro.
Con Michele abbiamo pensato che la lettera potesse essere il primo passo per arrivare ad un confronto pubblico, che non esprimesse solo una condizione di disagio e conseguenti lamentele, ma che potesse dare concrete indicazioni a chi avrà la responsabilità della gestione dei saperi in questo paese. Siamo infatti convinti che solo da un’assunzione di responsabilità collettiva, di tutti quelli che lavorano nell’arte contemporanea, possa derivare l’obbligo di un’assunzione di responsabilità da parte della politica.
Un caro saluto a te.
La lettera mi sembra un'iniziativa lodevole, assolutamente sottoscrivibile da chiunque si occupi di queste cose. Mi congratulo con Dantini e Gavarro per quanto stanno facendo, e non da oggi, per promuovere l'arte contemporanea come bene comune.
Mi chiedo tuttavia se l'ottimismo della ragione e della volontà, sotteso alla lettera, abbia una qualche possibilità di produrre effetti nella prassi politica di una classe dirigente che non solo non capisce nulla di contemporaneità, ma non ha alcuna voglia né di aggiornarsi, né di ascoltare gli esperti, né di mettersi in discussione, con l'unica preoccupazione di autoriprodursi senza troppe scosse. La vicenda dell'elezione del Capo dello Stato e dell'incarico per il nuovo governo mi sembra gettare sul presente e sul futuro un'ombra di durevole pessimismo. Abbiamo un'idea di chi sono gli interlocutori a cui così generosamente ci stiamo rivolgendo? Ci vorrebbe una vera rottura con il passato, un rinnovamento radicale nella considerazione dell'intero ambito estetico. Mi ricordo le parole dell'allora Ministro Bondi ad una inaugurazione di Biennale veneziana: da mettersi a piangere. Purtroppo siamo ancora lì, anche se i nomi dei ministri possono cambiare. Può un governo di larghe intese rispondere al grido di dolore e alla legittimissima richiesta di cambiamento di rotta che viene dal mondo dell'arte contemporanea?
Comunque avete ragione: almeno resterà agli atti della storia che non tutti, in Italia, nel 2013 erano inconsapevoli, autoreferenziali e ignoranti. Perciò, grazie dell'iniziativa e molti auguri.
Cara Luisa,
Ti ringrazio del commento e colgo l’occasione per argomentare.
Tu dici che l’interlocutore “politico” è deficitario, e non da adesso: hai pienamente ragione. Il punto però non è questo, a mio avviso. Si tratta piuttosto di contribuire a una maturazione collettiva nell’ambito del contemporaneo: occorre riuscire a rivolgersi autorevolmente alle istituzioni, dimostrare di essere capaci di ragionamento politico e politico-culturale, risultare accompagnati da una reputazione di rigore e indipendenza, dimostrarsi capaci di coerenza e persino di coraggio. Questo oggi per lo più non accade: tutti ricordiamo come scelta discutibile (e politicamente subalterna) l’acclamazione con cui alcuni di noi, nel ruolo di rappresentanti di un intero settore istituzionale, salutarono alcuni mesi fa, forse per frainteso senso di circostanza, il conferimento di un prestigioso incarico di presidenza a una politica in uscita dal Parlamento.
L’esperienza recente, nei rapporti tra responsabili del ministero e associazioni di settore, prova a sufficienza il deficit di autorevolezza di cui oggi noi tutti soffriamo: in primo luogo le giovani generazioni, i futuri professionisti, i talenti in formazione, che non trovano opportunità di occupazione qualificata. Mi spiego.
La mia personale valutazione dell’ultimo ministro, Lorenzo Ornaghi, può essere (ed è, come ho chiarito più volte) pessima. Questo però non ci esime, se davvero siamo convinti dell’importanza sociale delle arti contemporanee nel contesto di una democrazia partecipata, dal riflettere sul perché i “decisori” mostrino tanta indifferenza ai temi dell’innovazione culturale e sociale. Occorre soprattutto destarsi da un equivoco consolatorio e corporativo: che cioè l’incuria istituzionale sia esclusivamente consequenza dell’”ignoranza” o della “protervia” del ceto politico.
L’”ignoranza” figurativa, o meglio l’analfabetismo contemporaneistico, incide certamente, ma non costituisce un elemento di novità: caratterizza storicamente la classe dirigente italiana, forse la più “passatista” di Occidente. Su questo nel breve termine possiamo fare poco. Esiste però una seconda circostanza su cui è urgente richiamare l’attenzione, perché ampiamente trascurata: il rifiuto del contemporaneo è oggi bipartisan, come pure le richieste di dismissione di una qualsiasi politica pubblica.
Accuse (generiche, moralistiche se vogliamo) all’arte contemporanea di essere “arte di regime” al servizio della finanza speculativa o del capitale internazionale vengono dai teorici della decrescita, che certo si schierano su posizioni politiche assai diverse da quelle di Ornaghi (o Rochey o Veltroni o Bondi o Galan); e dai più strenui difensori del “patrimonio”, storici dell’arte e archeologi, che non esitano a invocare la riforma del MiBAC in senso esclusivamente pro-tutela (con cessazione dunque delle attività pro-arti contemporanee).
Pregiudizio, competizione accademica e istituzionale tra “antico” e “moderno”, avversione in parte legittima per il mainstream globale: tutto questo congiura, inutile negarlo, e rende sempre più attraenti anche nel nostro paese le tesi distruttive di critici e storici come Marc Fumaroli o Robert Hughes. La recente ricezione italiana di Kulturinfarkt, il brillante pamphlet politico-culturale di quattro studiosi di area germanica, conferma la tendenza: Kulturinfarkt riconosce la necessità di un investimento pubblico selezionato in cultura e creatività, ma in Italia il volume è stato spacciato come un opuscolo ultraliberista dalla casa editrice.
Ancora in questi giorni Nicola Caracciolo, rappresentante di Italia Nostra Toscana, fratello di Carlo (il fondatore di Repubblica e dell’Espresso) e ambientalista storico chiede in una lettera a Repubblica l’istituzione di un unico ministero per i Beni culturali e l’Ambiente. La proposta, del tutto legittima, può trovarci d’accordo nei suoi termini generali: ma non è neutra. Ha senso solo a condizione di una dismissione delle attività pro-contemporaneo del MiBAC, e ha come sottotesto un elemento di radicale polemica (tardopasoliniana, verrebe da dire) anti-modernista e anti-industriale. Perché non pensare invece a un accorpamento del MiBAC al MIUR (e al rilancio delle politiche di innovazione culturale)?
Slow Food, associazioni pro-tutela e difensori del patrimonio si stanno coalizzando nel rigetto di una qualsiasi partecipazione pubblica alla produzione contemporanea. Le cattedre di storia dell’arte contemporanea sono tra le più colpite dal disinvestimento in ricerca e formazione superiore, e si trovano in crescente minoranza nell’ambito di dipartimenti disegnati e retti da antichisti, storici, filosofi. Come formare nuovi storici, critici e curatori? La saggistica contemporaneistica sopravvive con difficoltà, e riduce le opportunità di buona informazione, mentre la critica indipendente trova raramente libertà di esercizio nei media mainstream (e perfino in quelli di settore!), o ne rifugge.
Potremmo pensare che questo accada in ogni parte del mondo: in parte è così. Ma in Italia la storica fragilità delle istituzioni pubbliche dedicate al contemporaneo e la composizione sociale del collezionismo, in parte o in toto legato al mondo delle commodities di lusso, rende più urgente restituire utilità pubblica e capacità di partecipazione storica e civile a un’intera comunità culturale.
Abbiamo la drammatica esigenza di riparare all’attuale deficit di autorevolezza del contemporaneo incoraggiando nuove voci e proponendo discontinuità: in assenza di ciò persino l’interlocutore politico più qualificato potrà rivelarsi indifferente o peggio spietato.
Un caro saluto e l'invito a contribuire, ciao MD
Io sono d'accordo, mi sembra un programma sacrosanto.
Speriamo, anche se io temo sempre che le cose stiano al contrario: non bisogna partire dal ministro, ma dal pubblico. Certamente passare dal ministro aiuterebbe la possibilità di interessare ed appassionare il pubblico. Se fotografiamo una vernice di una mostra in italia (ma forse non solo?) vediamo solo addetti ai lavori..come se al cinema ci andassero solo attori, registi, sceneggiatori ecc
Vista la situazione l'italia potrebbe giocare da late comer, e innovare. Ma servono persone capaci e motivate, non vecchi operatori senior apatici e privi di energie per avere lottato per 20 anni contro i mulini a vento (vettese, di pietrantonio, rabottini, pinto, maraniello, viliani, ecc ecc).
Nel mio piccolo da quattro anni, sto dando uguale importanza a tre aspetti:
critica
progettualità
nuovo rapporto con il pubblico
Cara Luisa,
ti ringrazio anch’io per il tuo contributo.
Adesso c’è un governo e c’è un ministro.
Naturalmente la situazione è quella che è ed è vietata qualsiasi illusione.
Non però la speranza.
La mia è che si metta a mano e testa ad una progettazione culturale che coinvolga tutti i settori, che tenga conto non solo delle necessità ma anche, e direi soprattutto, delle proposte. Una progettazione che sia in grado di valutare e di utilizzare le risorse oggi disponibili. A questo proposito elevare di 1 o 2 decimali la percentuale di pil destinata alla cultura è punto imprescindibile.
Ma è il modo, la regola, con cui utilizzare queste risorse che oggi appare la questione non più rinviabile. Non possiamo più consentire che potentati di derivazione politica privi di conoscenza e di coscienza, azionino leve e manopole direttamente collegate ai vicinati di turno disponibili alla ovvia ri-spartizione.
Il primo atto che mi attendo dal ministro è l’azzeramento di quanto è fin qui stato fatto dai suoi due predecessori, per i quali auguriamo solo rapido e definitivo oblio.
Il secondo atto è la composizione di gruppi di lavoro di esperti dei vari ambiti, consulenti gratuiti, dai quali trarre una visione ampia e concreta di quanto è necessario. Al ministro, alla sua azione politica, spetterà poi coniugare questo necessario con il possibile.
Per tutto questo possiamo sperare, ma non solo. Dobbiamo continuare a discutere, a proporre, a pretendere. Adesso è davvero in gioco non solo il futuro del nostro paese, ma anche il suo presente.
Un saluto affettuoso.
“Come formare nuovi storici, critici e curatori?” Michele,
ho la sensazione palpabile che manchi qualcosa/qualcuno in quest’elenco che gia’ cosi’ mette in luce il macroscopico problema della disaffezione attuale al contemporaneo.
La voce che manca e’ “artisti”. Quell’anello del sistema-catena senza il quale tutto il resto non esisterebbe. Non considerare che gli artisti siano parte integrante di questo discorso sul piano formativo e’ gia’ indice a mio avviso del cattivo costume tutto italico di considerare la formazione degli stessi in secondo piano rispetto agli storici, ai critici e a chiunque altro persegua altre formazioni in Italia; il diploma di academia e’ ancora considerato un titolo di seconda categoria rispetto alla laurea in altre materie.
Se questa deve essere una nota propositiva e progettuale invece di un ennesimo cahier de doleances, allora vorrei auspicare una revisione del sistema educativo delle arti in questo paese per cui sia possibile anche per gli artisti di fare un percorso di ricerca sostenuto e riconosciuto come tale, accedendo a concorsi per master e dottorati che a tutt’oggi non esistono in Italia, utilizzando successivamente le proprie specificita’ nel campo dell’insegnamento con autorevolezza.
Non permettere questo passaggio indica un paese che non riconosce gli artisti come generatori di un pensiero critico dell’esistente altrettanto valido rispetto a chi fa’ ricerca dal punto di vista esclusivamente teorico.Non esiste neanche una posizione giuridico/fiscale a deguata al proprio lavoro!
Penso a quegli artisti come me che dopo il diploma di accademia sono migrati altrove per poter continuare un percorso di ricerca semplicemente impossibile in Italia. Penso alle selezioni dure ed intense per poter accedere alle universita’ d’arte estere, al denaro guadagnato con fatica e speso per rette onerose e produzione di lavori, penso all’impostazione critico-teorica e pratica acquisita in quel percorso ed alla professionalita’ che non verra’ riconosciuta in patria poiche’ semplicemente non estiste nulla a cui equipararla. La migrazione massiccia sotterranea generazionale che sta colpendo l’Italia da piu’ di 10 anni riguarda una gran quantita’ di lavoro intellettuale ed artistico che qui non puo’ crescere e che si perde.
E’ dura poi ricordarsi di alcuni dei propri insegnanti di accademia che sedevano e siedono sulle proprie cattedre grazie a molto molto meno ma la cui posizione millanta per loro una competenza che spesso non esiste. Una formazione del vuoto che replica se stessa.
Bisognerebbe dunque avere il coraggio di toccare il nodo di come la poca considerazione del contemporaneo provenga a mio avviso anche dalla minima (inesistente?)considerazione che si ha degli artisti dal punto di vista professionale. Ne e’ indice il fatto che in Italia sia ancora oggi il successo commerciale ad indicare chi ha una ricerca/poetica solida alle spalle e chi no, delegando a premi/awards (spesso definiti da rapporti di forza interni che esulano dal merito dell’artista) un criterio di selezione che andrebbe fatto a monte dal punto di vista formativo.
E su quale tipo di formazione ci sarebbe molto ma molto da dire…