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libri_anticipazioni | I futuristi: contro la fotografia? | (bollati boringhieri 2009)

di - 10 Aprile 2009
I futuristi, ovvero i massimi esponenti di un’arte innovativa dal punto di vista linguistico e tecnologico, tenevano la fotografia in poco o nessun conto. Nel 1916 Marinetti, Boccioni, Ginna, Corra, Chiti e Settimelli sottoscrivono il Manifesto della cinematografia futurista, in cui espongono una serie di idee, molte delle quali si realizzeranno negli anni successivi. Considerazioni teoriche che vanno in direzione di un superamento del cinema narrativo. I futuristi però non redigeranno mai un manifesto della fotografia. Perché? Secondo Claudio Marra la loro avversione nei confronti di questo medium – al contrario del cinema – può essere spiegata dal fatto che la consideravano un’arte passatista, che inseguiva la realtà senza riuscire a distaccarsi da essa. Una posizione assai simile a quella dei formalisti russi e di Tynjanov in particolare, il quale riteneva il cinema un’espressione artistica poiché fondata sull’articolazione linguistica, a differenza della fotografia che, “in quanto priva di movimento, non poteva innanzitutto essere considerata linguaggio, di conseguenza, non essendo linguaggio, non poteva neppure vantare alcun diritto di riconoscimento artistico” [1].
Sarebbe quindi “semplicemente” la differenza tra la pura posa fotografica e il movimento del cinema a creare un divario molto profondo tra i due mezzi espressivi? Lo statuto artistico è stato attribuito al cinema molto prima della fotografia, come se quest’ultima dovesse pagare ancora a lungo lo scotto di avere, a metà del XIX secolo, scalzato la pittura, sottraendole il compito di rappresentare la realtà.

Esiste naturalmente un’eccezione all’interno del Futurismo, ovvero il fotodinamismo di Anton Giulio Bragaglia. Ma è proprio la battaglia teorica che si scatena all’interno del gruppo in merito agli esperimenti di Bragaglia ad avvalorare l’ipotesi di Marra. Sono soprattutto i pittori a nutrire grande diffidenza per le fotodinamiche. Come ricorda Giovanni Lista, sulla rivista “Lacerba” Boccioni (che pure è autore del celebre autoritratto/fotomontaggio, Io noi Boccioni) respingeva con disprezzo il legame tra la pittura futurista e la fotografia. Per i futuristi d’altronde sia il cinema che la fotografia “restavano confinati a una semplice ‘imitazione oggettiva’ della realtà” [2]. Ma è in fondo la stessa avversione che dichiara Bragaglia nel suo testo del 1911: l’unico modo per elevare la fotografia a medium artistico è superare “la pedestre riproduzione fotografica del vero immobile o fermato in atteggiamento di istantanea” [3]. Ecco il paradosso: compito della fotografia è abbattere l’“oscena e brutale realisticità statica” [4], ovvero l’essenza stessa del suo dispositivo, neutralizzare il carattere fotografico.
Nel tentativo del fotodinamismo “di strappare al cinema il suo movimento per incorporarlo nello spessore della materia fotografica” [5] c’è naturalmente un interesse estetico, non scientifico come nella cronofotografia di Marey, che pure – molto più di Muybridge – sembra iconograficamente affine alla fotodinamica. Parliamo delle immagini realizzate da Marey con apparecchio cronofotografico a lastra fissa, diverso quindi dal fucile, poiché non registra le varie fasi del movimento in immagini in successione, bensì trascrivendole in un’unica istantanea. Alcune di queste fotografie che riproducono i movimenti umani, tra l’altro, sono realizzate facendo indossare al performer una tuta nera con linee bianche in corrispondenza degli arti superiori e inferiori, in modo da tracciare un diagramma del movimento. Iconograficamente queste immagini stilizzate influenzano per esempio la pittura (pensiamo al Nu descendent un escalier di Duchamp [6]). E tuttavia Bragaglia, secondo Lista, tiene a rimarcare la differenza tra le sue riproduzioni e quelle di Marey, poiché conduce le sue ricerche verso una “fotografia del movimento […] basata sulla traiettoria dello spostamento di un corpo nello spazio e non sull’analisi delle sue varie fasi cinetiche come avveniva nelle immagini del fisiologo francese”, dunque la fotodinamica “vuole rendere solo “l’impressione psichica” di un gesto evocandone in sintesi la traiettoria” [7]. Le immagini di Bragaglia rappresentano apparentemente una sorta di riscatto della fotografia, attraverso la possibilità di utilizzare il medium fotografico per distaccarsi dallo staticismo della pittura, avvicinandosi invece al cinema.
La sintesi di un’azione che si svolge nel tempo, inscritta in una sola immagine – anziché in una serie di fotogrammi separati l’uno dall’altro che acquistano movimento, non per mezzo del dispositivo della proiezione, ma direttamente nell’occhio dello spettatore per effetto della persistenza retinica -, sembrerebbe un primo tentativo di riavvicinare la fotografia al cinema. E, di conseguenza, anche la pittura al cinema. Tanto è vero che il simultaneismo alla base delle fotodinamiche di Bragaglia prosegue le ricerche sul movimento in pittura di Balla e Boccioni di qualche anno prima, ma partendo da presupposti teorici molto diversi, con l’obiettivo dichiarato di “dare alla pittura e alla scultura movimentiste quelle salde basi che gli sono oggi assolutamente necessarie”. Eppure, sempre nel testo del 1911, Bragaglia distingue nettamente il fotodinamismo dal cinematografo, il quale “non segna la sagoma del movimento ma lo suddivide, senza alcuna legge, con meccanico arbitrio, disintegrandolo e spezzettandolo, senza preoccupazioni estetiche di alcuna sorta per il ritmo”. Sono semmai le immagini di Marey ad essere affini al cinema, essendo per Bragaglia “cinematografia eseguita sopra una lastra comune” [8].

In conclusione, le fotodinamiche sono qualcosa di diverso sia dalle fotografie (che hanno un unico stato), sia dai film (che conducono l’osservatore da uno stato all’altro ma senza preoccuparsi degli “stati intermovimentali del gesto”); l’estetica del fotodinamismo prende invece come punto di riferimento le teorie di Bergson (“afferrare ciò che accade nell’intervallo è più che umano”), compiendo un’opera che trascende la condizione umana cosi da divenire una “fotografia trascendentale del movimento” [9].

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bruno di marino

[1] Claudio Marra, Fotografia e pittura nel Novecento, Bruno Mondadori, Milano 1999, p. 25.
[2] Giovanni Lista, Cinema e fotografia futurista, Skira, Milano 2001, p. 17.
[3] Anton Giulio Bragaglia, Fotodinamismo futurista, Nalato, Roma 1911, p. 7.
[4] Ivi.
[5] Raymond Bellour, La doppia elica, in Valentina Valentini (a cura di), Le storie del video, Bulzoni, Roma 2003, pp. 203-204.
[6] Esiste tra l’altro un’istantanea realizzata da Eliot Elisofon nel 1952 che ritrae Marcel Duchamp moltiplicato in varie sagome. Immagine ottenuta con lampi di luce: un chiaro omaggio al suo Nu Descendent un escalier e, al tempo stesso, sia agli esperimenti di Marey che a quelli di Bragaglia. Hans Richter ha poi tradotto questa composizione duchampiana in immagini in movimento nell’episodio di Dreams that money can buy (1943-47), ideato dallo stesso Duchamp.
[7] Lista, op. cit., pp. 151 e 163-164.
[8] Bragaglia, op. cit., pp. 7 e 21.
[9] Bragaglia, op. cit., p. 28 [corsivo suo].


*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 56. Te l’eri perso? Abbonati!

[exibart]

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  • da anni sto meditando sul possibile senso di questo movimento importante che segna il nostro '900 e, direi, oltre il secolo breve: importante queste considerazioni di Bruno Di Marino circa i rapporti "fotografia (cinema) futurismo" e che mi invoglia a prendere questo testo critico; in ultimo vorrei congraturarmi con il Recensore per chiarezza espositiva e ottimo senso critico.
    Roberto Matarazzo

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