Categorie: Libri ed editoria

Lo sguardo di Eugene Berman, da riscoprire nel libro di Monica Cardarelli

di - 2 Dicembre 2025

«There is more to seeing than meets the eye», scriveva Aldous Huxley nel suo The Art of Seeing. Vedere — non solo guardare — richiede un atto laterale, un movimento silenzioso della mente prima ancora che dell’occhio. Una scelta, dunque. Che oggi, in un tempo che confonde visibilità e visione, ci manca e che per Eugene Berman si era già fatta metodo: quello che guardava, e come lo guardava. In maniera laterale più che frontale, capace di diluire l’insieme nel dettaglio, di avvicinarsi alla soglia evitando l’invasione muscolosa. È uno sguardo che, dopo decenni di silenzio, ritorna fruibile grazie a chi Berman ha saputo osservare con affettuosa pazienza, lateralità e visione d’insieme. È lo sguardo di Monica Cardarelli.

L’occhio di Berman: ordine, memoria, silenzio

Il silenzio che ha avvolto per decenni l’opera di Berman e che gli studi di Monica Cardarelli, autrice del volume Eugene Berman. Il tesoro di Civita Castellana, edito da Galleria del Laocoonte, stanno finalmente rompendo – grazie anche alla mostra visitabile fino all’1 marzo 2026 al museo Mart di Rovereto – è un silenzio diverso da quello che lui stesso praticava. Oblio nebbioso il primo; materia di pensiero pulsante il secondo.

In quella materia, l’artista lavorava: tutt’altro che introverso, tutt’altro che asociale, Berman era un paziente costruttore di immagini capaci di parlare senza scandalo, senza pose, perfino senza gesti. Semi visivi che si depositano nella mente di chi le guarda, e vi crescono come radici di altri pensieri: perché quel silenzio non era una condizione esistenziale, ma il suo vero strumento di lavoro.

Un lavoro fatto anche delle sue fotografie — piccole architetture di memoria, appunti destinati a tornare nei dipinti, nei costumi teatrali, nelle illustrazioni: un angolo di strada, un rito siciliano, il fondo scuro di una stanza, un profilo catturato “di sbieco”. E di memoria. Ordinatissima, e radicata nell’insegnamento di sua madre, che lo aveva abituato a etichette, biglietti, scatole annotate a mano.

Un’ossessione che si trasforma, anch’essa, in metodo: tutto, per Berman, era preparazione, sedimentazione, ordine che diventa voce — come confermano i suoi 135 album di disegni: rubrica, atlante, archivio.

Eugene Berman, La Nuit de Rois (“Twelfth Night”), 1938, china, acquerello e gouache su carta, cm 32×24,5. Collezione Galleria del Laocoonte Roma/Londra

Tutto questo si sente nelle sei ore dell’intervista che Berman rilasciò nel 1971 a Paul Cummings per gli Archives of American Art dello Smithsonian, e che Monica Cardarelli ha ascoltato, tradotto e ricucito con la stessa attenzione con cui ha ricostruito il suo archivio visivo. Una voce bassa, calma, precisa, quella di Berman, che accompagna fino alla soglia delle immagini della sua vita: Stravinsky, Balanchine, la fuga dalla Russia, la Parigi senza luci, il matrimonio a Beverly Hills, la collezione costruita «Per il piacere di tornare a casa».

E poi quella frase, detta con un sorriso che Cardarelli mi restituisce intatto: «Senza la Rivoluzione non sarei diventato un pittore». Di nuovo, l’inattesa lucidità dello sguardo laterale: solo perdendo la sicurezza materiale del giovane borghese dello Zar, Berman scopre il valore della memoria, del ricordare. E può, così, riconoscere nella perdita non una fine ma un inizio.

Eugene Berman, Masterpieces of World Art, 1943, china, gouache e acquerello su carta, cm 16,5×24,5. Collezione Galleria del Laocoonte Roma/Londra

L’occhio di Cardarelli: studio, restauro di sguardi, metodo

Monica Cardarelli incontra l’universo Berman cercando qualcos’altro, come spesso accade quando si trovano veri tesori. Parte seguendo la traccia di alcuni taccuini citati in un vecchio catalogo; trova invece un intero continente, nelle due celle del Forte Sangallo a Civita Castellana.

Più di 9mila disegni, 135 album, dipinti, progetti scenografici, materiali teatrali, appunti, fotografie, frammenti di giornale: una tessitura fittissima di riferimenti visivi che nessuno aveva mai guardato come un insieme. Molte opere sono ammuffite, altre abbandonate, altre ancora liquidate come “materiale secondario”.

Lei non si spaventa: misura, cataloga, fotografa, ordina. E ricompone. Ricostruisce un artista davvero enorme, come Eugène Berman, attraverso i suoi gesti minimi. E parallelamente traduce integralmente l’intervista dello Smithsonian, non per interpretarla ma per non dover interpretare: per lasciare che sia Berman a dire Berman. Un atto di pulizia critica raro, quasi ostinato, e necessario.

Il suo libro Eugène Berman. Il tesoro di Civita Castellana non è una monografia ma una forma di restituzione: mostrare quello che c’è, non quello che ci si aspetta di vedere.

Eugene Berman, Perspective of Columns at Paestum, 1959-60, olio su tela, cm 120×86,4. McNay Art Museum, Gift of Robert L. B. Tobin, by exchange, 2007

Metodo contro identità

Cardarelli – sguardo preciso, quasi chirurgico, eppure sorprendentemente caldo nel modo in cui restituisce le emozioni del suo stesso sguardo critico – lascia scorrere la biografia di Berman come un fiume tranquillo. Non trascura nulla ma avverte: la biografia serve a capire un artista – e la sua opera – solo se diventa un mezzo, una lente che permette di entrare nel laboratorio anche mentale dell’artista senza forzarlo, semplificarlo o, peggio, trasformarlo in un’etichetta.

Eugene Berman, Ritratto di Elisse Suttman, 1969, gouache su cartone, cm 50×40. Collezione Galleria del Laocoonte Roma/Londra

Le categorie identitarie, dice, sono elementi da maneggiare con cura: possono aiutare, ma diventano deviazioni – non strumenti – quando si sovrappongono allo sguardo sull’opera. Uno sguardo che, necessariamente, deve essere lungo, laterale, lento, se vuole davvero capire cosa accade dentro ciò che sta guardando.

«Questa è la critica d’arte», mi dice Cardarelli, individuando con pacatezza e decisione il suo modo di lavorare: verificare, rallentare, ascoltare le immagini, perché è nella lentezza che un’opera trova la sua voce e in quella voce si rivela la logica interna del mondo dell’artista.

Incontro laterale tra due sguardi

Così, in un raro allineamento di sguardi, quello dell’artista e quello della studiosa si sfiorano: non per sovrapporsi ma per completarsi, ciascuno mantenendo il proprio passo.

Nel suo libro, Cardarelli offre al lettore una serie di confronti nitidi: gli scatti del fotografo Grassi che Berman traduce in illustrazioni per una rivista americana; i riti siciliani davanti all’Etna, trasformati in appunti visivi che ritornano come un mantra nei disegni; la trama delle sue relazioni — Stravinsky, la casa, il matrimonio, le persone — fino all’altra vita possibile nel ritratto che Leonor Fini fece alla moglie dell’artista.

Dettagli, pose, diagonali: elementi che Cardarelli avvicina, senza forzarli ma rendendoli più leggibili, più prossimi, senza alterarne la natura. Un gioco di sguardi, appunto: quello dell’artista che osserva e trasforma, e quello della studiosa che porta alla luce ciò che nell’appunto era rimasto un sussurro.

Eugene Berman, Studio per Cassandra, 1943, Inchiostro di china e acquerello su carta, cm 36×28,8. Collezione privata Parigi

Eredità e restituzione

C’è un luogo, nella vita di Berman, che racconta il suo sguardo quanto i dipinti: non uno studio, né tantomeno una stanza segreta. È la sua collezione. Più di 3mila oggetti — archeologici, etnoantropologici, precolombiani — raccolti in decenni, scelti uno per uno con la stessa pazienza con cui disegnava.

La sua affezionata cameriera, Armida Pellegrini, lo chiamava «Il museo di Papa Eugenio»: una battuta graziosa che racconta quanto quel mondo, esposto nella casa di Palazzo Doria Pamphilj, fosse parte essenziale dell’identità di Berman. Non collezionismo decorativo ma, ancora una volta, un modo di pensare nella memoria: ordinando, ricordando, custodendo.

Quando, nel 1972, Berman muore a Roma, quel museo interiore si sfalda: gli appartamenti vengono svuotati e gli oggetti si disperdono tra istituzioni, scatole, depositi. A Civita Castellana arrivano negli anni Novanta, per restarci. Chiusi e silenziati.

Cardarelli li riapre. Li studia, li fotografa, li ricolloca, dando nuova coerenza a ciò che era diventato frammento e rimettendo in dialogo mondi che avevano smesso di parlarsi. È un lavoro di scavo critico, prima di tutto. Ma è anche un gesto di restituzione: riportare alla luce il museo invisibile che aveva nutrito lo sguardo di Berman. E forse, più ancora del libro, è questa la sua opera.

Chiusura. Uscire di lato

Con la sua voce calma, quasi disarmante, Berman dice cose che, a un secondo sguardo, rivelano una lucidità sorprendente. Per esempio, quando racconta di non provare nostalgia per la Russia, pur essendo stato costretto dalla rivoluzione del 1917 a lasciare tutto. Non parla come un esule, né come qualcuno che si sente derubato: parla come chi ha scelto il proprio punto di vista. Ed è da quella posizione, da quel suo “stare-di-lato”, che apre il proprio spazio di soglia, quel “tra” che non è possesso e non è rinuncia, ed è la forma più vigile e mentale del vedere.

Huxley, che aveva aperto lo sguardo, torna con un ultimo movimento laterale ispirandosi a Blake: «Ci sono cose note e cose ignote, e in mezzo ci sono le porte della percezione». Le “porte della percezione” stanno in quel margine laterale dove Berman ha sempre posato lo sguardo e Cardarelli ha ricomposto e rimesso a fuoco.

Chi osserva oggi può solo accorgersene. Il resto è lavoro dell’occhio.

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