Il sole mi ferisce implacabile. Oscillazioni: agosto, nellacacofonia delle ferie e nell’impeto anfibio: eppure l’acqua è spazio senza traccia. Pausa. Pausa dalla pausa: gelato al limone. Il gabbiano (non solo lui) stride – chi ascolta? La poesia è tra la sabbia. Granello uno: Granello 2: 4ran3ll0III: 5 2 192 6: usque ad aeternum. Con me un vero pezzo d’arte. Non gli Achromes manzoniani: mi erano scomodi. Ho preferito qualcosa di più tascabile, come gli Scritti d’arte di Vincenzo Agnetti.
Non è questo un tentativo di fare eco al testo: non ne sarei capace. La parola dell’autore e la sua forza vanno ben oltre. Tuttavia, letto il libro, non si può far altro che approdare nuovamente là dove tutto è cominciato (o forse appena terminato?): ossia nel libero dispiegamento dei significanti, trascinati dalla corrente inarrestabile del pensiero. Forse non è chiaro, ma poco importa. Lo stesso inciampo (più d’uno, per la verità) lo si incontra fin dal principio di questi Scritti, curati da Federica Boragina, che, saggiamente, li dissemina in ordine di complessità decrescente. L’inciampo è infatti propedeutico al discorso di Agnetti, che nella varietà di registro – che sia critico, poetico, descrittivo-divulgativo – sempre resiste alla lettura semplicistica. E tu, caro lettore, non vorrai mica sottrarti al gioco?
L’antologia è uscita poche settimane fa per Abscondita, e raccoglie molti degli scritti – alcuni inediti o di difficile reperimento – redatti negli anni 1959-1981, restituendo finalmente corpo unitario (seppure fatalmente non-finito) all’attività letteraria, a quel Rammentatore critico così pregnante nel percorso e nella poetica dell’artista. Interventi spontanei per alcuni amici, Scritti proposizionali, testi pubblicati in cataloghi, riviste di settore o annotazioni non divulgate: per Agnetti la forma è irrilevante – il libro, suggerisce Marco Meneguzzo nella sua bella postfazione, potrebbe leggersi liberamente, senza l’ausilio di alcuna nota. A valere è il peso della parola, ossia del pensamento, che per necessità di revisione critica, va continuamente emendato. Eroso “per forza di levare” direbbe Michelangelo. Tradotto, ridotto, dimenticato.
La creazione dell’oggetto artistico viene dopo. Esso è concetto reificato, ciò che rimane dalla distillazione del linguaggio, di cui ormai sono stati rovinati i codici, alterati i referenti, contraddetti i significati usuali. L’opera ne conserva l’informazione al suo grado zero, che si fa germe latente nel campo vuoto – e dunque massimamente fertile –della tela monocroma, del silenzio musicale, del rimosso inconscio. Un vuoto che non si esaurisce come nulla, come svuotamento fine a sé stesso, ma diventa presupposto esistenziale di ogni altro ‘pieno’. Scuote e mina le certezze e gli automatismi mentali dei suoi interpretanti, stimolandoli nella co-produzione di nuovi sovrasensi, nuovi discorsi: “una demistificazione con le armi della mistificazione stessa”. E così fino ad un nuovo spirito irreggimentato, “luogo della ripetizione” diceva Barthes.
In questa eterna dialettica del vuoto, l’arte di Agnetti può esser vista soltanto come un tutto unico che respira armonicamente. Edgar Allan Poe avrebbe anche potuto esimersi dal rivelare obiettivi e artifici poetici nel suo famoso saggio La filosofia della composizione; in Agnetti invece tutto è già arte: ogni “istante lavoro” della sua Opera, sia esso scritto o vissuto, si integra con gli altri. Pur nella specifica autonomia o apparente disconnessione, si fa specchio di una struttura riflessiva infinita: l’opera aperta di Babele. E dire che era soltanto un tascabile!
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