L’acquisto di un’opera tutelata dalla legge sul diritto d’autore (legge 22 aprile 1941 n. 633 e succ. mod.; di seguito, la “Legge Autore”) non comporta, infatti, anche l’acquisto dei diritti patrimoniali sull’opera stessa che, se non diversamente – e specificamente – previsto nel contratto di compravendita, rimangono in capo all’autore.
La Legge Autore sul punto è chiara: “La cessione di uno o più esemplari dell’opera non comporta, salvo patto contrario, la trasmissione dei diritti di utilizzazione, regolati da questa legge” (art. 109); e quando tale cessione è invece convenuta, “la trasmissione dei diritti di utilizzazione deve essere provata per iscritto” (art. 110).
Oggetto del diritto d’autore è il bene immateriale (il c.d. corpus mysticum), distinto dal possesso/proprietà del mero supporto sul quale l’opera è fruibile (il c.d. coprus mechanicum) e la normativa mira a valorizzare e a rendere efficace il principio fondamentale del diritto d’autore sull’ indipendenza delle facoltà economiche di sfruttamento di un’opera dell’ingegno, sancita dall’art. 19 Legge Autore (“I diritti esclusivi previsti dagli articoli precedenti sono fra loro indipendenti. L’esercizio di uno di essi non esclude l’esercizio esclusivo di ciascuno degli altri diritti. Essi hanno per oggetto l’opera nel suo insieme ed in ciascuna delle sue parti”).
Il principio in oggetto, in giurisprudenza, è sostanzialmente pacifico ed è stato recentemente ribadito dal Tribunale di Milano, all’esito di una causa promossa da un artista nei confronti della società Jeckerson S.p.A., nota casa di moda italiana, che aveva commissionato all’attore un quadro, composto da tre pannelli, da collocare nel proprio negozio di Milano in occasione della “Vogue Fashion Night” e che, finito l’evento, aveva successivamente riprodotto in altri negozi, sul sito Internet della società e sulla carta per impacchettare i capi di abbigliamento venduti; il tutto senza chiedere il consenso al pittore e senza mai indicare la paternità dell’opera riprodotta.
Il Tribunale di Milano (Sezione specializzata in materia d’impresa, sentenza n. 5093/2018 del 9 maggio 2018), accertato che la società “onerata dal relativo onere, non ha documentato il consenso dell’autore alla riproduzione delle sue opere”, ha riaffermato il principio ribadendo come “la proprietà in capo alla società convenuta, di una delle opere create dall’autore, non implica anche il diritto di utilizzazione mediante riproduzione”. Inoltre, constatato che le immagini riprodotte abusivamente non recavano neppure l’indicazione di paternità dell’autore, il Tribunale ha constatato la “plateale violazione del diritto d’autore, sia con riguardo alla componente morale, che a quella patrimoniale”. Quanto ai danni patrimoniali, “essendo impossibile quantificare i danni subiti dall’attore, sia il legislatore comunitario che quello nazionale, a fine di consentire al danneggiato di ottenere un risarcimento dalle violazioni subite, nei casi come quello di specie in cui non si rinvengono altri criteri più idonei, ha previsto che, in via residuale, il lucro cessante possa essere quantificato “quanto meno” facendo riferimento al canone virtuale che avrebbe dovuto essere riconosciuto “qualora l’autore della violazione avesse chiesto al titolare l’autorizzazione per l’utilizzazione del diritto” (articoli 158 Legge Autore e 125 Codice della proprietà intellettuale)”.
Il presente contributo costituisce un estratto dell’Osservatorio curato dall’Avv. Gilberto Cavagna di Gualdana, grazie alla collaborazione con Darts-ip | The global intellectual property cases database, pubblicato sulla rivista ART&LAW 2/2019 di Negri-Clementi Studio Legale Associato.
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