Il nome di Franco Fontana (Modena, 1933) è sinonimo di colore. Dell’uso del colore nella fotografia italiana, “quel colore dove cuore e pensiero vivono la vita dal vero”, come ha raccontato ad Exibart l’artista durante l’inaugurazione della sua personale nello spazio di Nicoletta Rusconi. Perché quando in Italia ancora dominava la scala di grigio, ricorda Castelli, Fontana importò il colore. La vita vera, insomma. Ma senza alcun riguardo per il mero realismo del fotogiornalismo, senza nulla togliere a quest’ultimo. Fontana certo era –ed è– interessato al reale, ma soprattutto alle sue pieghe. Una realtà paradossalmente inverosimile, costituita da ampie campiture cromatiche, da un’articolazione formale geometrizzante, da una pressoché totale assenza di profondità di campo. Come miscelando senza timori reverenziali un Mondrian e un Antonioni, per vedere l’effetto che fa.
Le fotografie presentate a Milano sono inedite. Introducono una novità nella stampa, poiché utilizzano la carta Endura montata a sandwich fra due strati di plexiglass con silicone. Un primo nucleo è titolato Asfalti, risalente agli anni 1995-2005 e realizzato in Emilia Romagna, Germania e Spagna. Mentre la parte consacrata ai paesaggi è più articolata dal punto di vista spazio-temporale. Ci sono gli scatti statunitensi, che hanno inizio nel 1979, dove si scopre un Fontana che riflette sulla texture delle ampie superfici colte in periferia, teorie di mattoni e sgretolamenti che “resistono” al suo studio sugli à-plat omogenei. Che però non mancano, come testimonia uno straordinario esempio titolato Los Angeles 1990, nel quale solo la leggera striatura nuvolosa permette di distinguere il mezzo fotografico da una pittura astratta primo novecentesca; o nello scatto omonimo, che non può non ricordare certi scorci hopperiani, ma con l’illuminazione solare che ci si aspetta da un uomo come Fontana.
Altrettanto notevoli sono un paio di fotografie scattate a New York nel 1979, nelle quali il modenese sperimenta in maniera inedita la profondità di campo, ritraendo com’era avvezzo a fare porzioni di realtà metropolitana totalmente flat, ma scegliendo di non obliterare la presenza di bandierine e festoni che inevitabilmente producono ombre svolazzanti, come un ilare disturbo del formalismo “originario”.
Il paesaggio “naturale” è infine rappresentato da due coppie di lavori. Dapprima Basilicata 1978 e Marocco 1982, con campi e colline striati da sfumature che dall’oro si spingono fino ai territori del blu di Prussia. Poi Mediterraneo 1983 e Mediterraneo 1985. Uno studio sulla linea dell’orizzonte in tramonti che nulla hanno di Romantico, piuttosto il rigore sofferto di un Rothko.
articoli correlati
Fontana per il calendario 2005 della Galleria Civica di Modena
marco enrico giacomelli
mostra visitata il 6 ottobre 2005
Tra arti applicate e astrazione: in mostra a Palazzo Citterio fino al 7 gennaio 2026, il percorso anticonvenzionale di una…
A Bari, la prima edizione del festival Spazi di Transizione: promossa dall’Accademia di Belle Arti, la manifestazione ripensa il litorale come spazio…
Il mitico direttore Daniel Barenboim torna sul podio alla Berliner Philharmoniker e alla Scala di Milano, a 83 anni: due…
In mostra da Mondoromulo, dinamica galleria d’arte in provincia di Benevento, due progetti fotografici di Alessandro Trapezio che ribaltano lo…
La Pinacoteca Civica Francesco Podesti di Ancona riapre al pubblico dopo due anni di chiusura, con un nuovo allestimento delle…
Tra intelligenza artificiale, installazioni monumentali e video immersivi, i settori "Zero 10" e "Meridians" mostrano come la fiera di Miami…