Ipersensibile, visionario, tormentato. Folle, ma solo nel senso attribuitogli da Deleuze, di chi vive “altrove”, in regioni segrete ai più, in un delirio di intensità. Antonin Artaud (Marsiglia, 1896 – Ivri-sur-Sline, 1948), l’attore dei film di Theodor Dreyer e Fritz Lang, il creatore di un teatro rivoluzionario, l’interprete immaginifico di Van Gogh, il cantore di Eliogabalo, di miti e leggende.
Un universo dilatato, costellato da poesie, dipinti e performance teatrali, che orbita intorno ad un preciso nucleo e che si condensa in una poetica di rottura radicale dei tradizionali schemi estetici, per scagliare il suo urlo contro l’ordine costituito del mondo. E’ la “festa della crudeltà”, di un’arte che emana zolfo e stregoneria, per spingere in uno stato di estasi e fervore, resuscitando le forze primordiali della vita, congelate dall’intellettualismo astraente occidentale.
Viene presentata per la prima volta in Italia l’opera del grande artista francese. Non una mostra commemorativa o museificante, ma un percorso allestito come narrazione dinamica, che abbatte le convenzionali separazioni fra differenti regimi artistici, per accompagnare il visitatore lungo i meandri e le molteplici sfaccettature del suo pensiero fremente e viscerale.
L’itinerario si dipana intorno agli straordinari disegni, in cui il “corpo vitale” è assalito da febbri di colore, e approda poi alla suggestiva sala dove numerosi schermi sospesi proiettano simultaneamente le sue 22 apparizioni cinematografiche, “ritratti cinetici all’estremo”, in cui l’artista irrompe in primo piano col suo incredibile viso, ora contratto, ora ardente, ma sempre consumato e attraversato da erosioni, tensioni e visioni.
Al centro dello spazio espositivo, la ricostruzione della stanza del manicomio di Rodez, dove l’artista fu rinchiuso e sottoposto, contro la sua volontà, a 51 sedute di elettroshock. E la mostra diviene allora esposizione della crudeltà in un senso davvero fedele alla poetica di Artaud: il dato biografico della pazzia si coagula in emorragia di vita che irrompe sulla scena della mostra squarciando il sipario di tutte le simulazioni e annullando la distanza fra opera e spettatore. Un’installazione di impatto, quella attuata dal curatore e artista Jean-Jacques Lebel, che, sulla scia degli studi di Foucault e Deleuze, interpreta l’internamento psichiatrico anche, e soprattutto, come metafora di quei dispositivi di controllo e di coercizione che la società esercita nei confronti di ogni alterità che sfugge alle omologazioni ideologiche del sistema.
Subito dopo, quattro schermi delimitano quasi uno spazio rituale e proiettano l’immagine di Artaud-Savonarola che arde nel rogo, nel film di Abel Gange del 1935.
Perfetta, profetica, interpretazione per chi ha invocato e scatenato ovunque, e su qualunque supporto, un’arte che divampasse al ritmo bruciante della vita, oltre i bordi della pagina, la cornice del quadro, il sipario del palcoscenico, fino all’esplosione semantica, al di là dei limiti imposti dagli schemi della rappresentazione.
sonia milone
mostra visitata il 5 dicembre 2005
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