Paesaggi verdi, distese d’erba e skyline di alberi in lontananza. Nessun soggetto sarebbe più classico, ma nessun trattamento formale sarebbe più anticonvenzionale di quello di Valentina D’Amaro (Massa, 1966; vive a Milano). I suoi olii su tela sconcertano per la piattezza con la quale vengono connotate immagini che nell’immaginario pittorico chiamano quasi automaticamente un trattamento in qualche modo “impressionistico”. Tale estetica precisa, definita e senza sbavature si ferma un passo prima di sconfinare in una pittura flat. Ma soprattutto un passo prima di diventare la riproduzione esatta di una paesaggio digitale. Proprio questa è l’innovazione formale più importante apportata al paesaggismo dalla D’Amaro: il contrasto fra un soggetto “naturalistico” e un’estetica che rimanda all’artificialità dell’immagine.
Hanno un bel dire Luca Beatrice e la stessa artista, nel testo in catalogo, che queste opere ricercano “l’essenza, la spiritualità” e indagano il “muto mistero naturale”. L’operazione dell’artista risulta invece prettamente concettuale: si tratta di indagare lo status odierno dell’immagine –digitale, artificiale, prodotta dall’esterno- mettendolo in contrasto con uno sguardo “naturale”, spontaneo e legato all’esperienza. E soprattutto di investigare il modo di porsi dell’arte nei confronti dell’immagine, oggigiorno così spersonalizzata.
Il paesaggio viene sottoposto a un processo -concettuale, appunto- di astrazione: dalla foto si passa al paesaggio, semirealistico e scopertamente fittizio. Successivamente lo spettatore può agire sulla propria visione del quadro allontanandosi da esso: il paesaggio diventa più nitido, senza tuttavia ritornare alla concretezza della foto, anzi accentuando il processo di astrazione.
Un grande merito della D’Amaro è quello di donare centralità alla visione periferica: nessuna costruzione o elemento umano punteggia i paesaggi; siamo davanti alla pura ambientazione, al quadro generale che ci sfuggirebbe se il nostro occhio fosse attratto da qualche particolare. Inoltre, si tratta di visione periferica in senso stretto: i paesaggi manipolati dalla D’Amaro non sono quelli di aperta campagna del mito bucolico, si tratta piuttosto di quegli sprazzi parziali di natura che possiamo vedere ai margini delle nostre metropoli, magari vicino a una tangenziale. Proprio quei luoghi -propaggini del “contadiname” di cui parla Guy Debord– a cui attinge massicciamente l’immaginario postumano-digitale, che la D’Amaro ha il grande merito di ricontestualizzare con grande puntualità.
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cavallo che si vende non si cambia... mmmmm, no, forse era diversa...
riuscirà mai a fare un lavoro leggermente diverso dal precedente????
Bah.....
vorrei un pezzo della d'amaro pe ril mio studio di dentista!! che artistuncola deliziosa innocua!
mostra vergognosa... ma cosa servono quelle fotine mal scattate, di scarsissima qualità di fianco a i quadri?
Già gli ultimi son brutti, ma le foto son realmente spazzatura!
Valentina... cambia mestiere!
va be' la mostrina prima di natale secondo voi che scopo deve avere?
io cmq preferisco andar eper fiere regalo a comprare artigianato che la d'amaro!
colombo pero' i soldi li ha non ha bisogno di artisti da recupero monetario di terz'ordine!
e poi le foto da corso di recupero ma lei vende anche quelle .
colombo dovrebbe fare un pò di pulizia in galleria e proporre cose coraggiose e lavori decisivi da imporre al mercat(acci)o italiano giacchè ne ha di possibilità ed invece : D'amaro!!!!!!
tra le altre cose a me i lavori della Damico,OOPS D'Amaro,sembrano plotter su tela ridipinti che non và male,ma ditelo perchè qualsiasi persona che lavora in tipografie,serigrafie con plotter e stampe digitali lo vede lontano un miglio