Lo spazio organizzato in scatole cinesi: Hans Schabus concepisce gli interni come cubi nei quali inscrivere strutture implicite atte a richiamare il motivo della montagna. Proseguendo una ricerca già iniziata al Padiglione austriaco curato da Max Hollein durante la scorsa Biennale di Venezia, tra i migliori della manifestazione. Gli ambienti della galleria Zero, che ospitano l’environment, acquistano una conformazione nuova, quasi irriconoscibile. Sezionati per andare a creare un metaluogo irreale, dove la percezione delle cose si perde. Proseguendo così la lezione impartita da James Turrel dello sfondamento verso una potenziale visione panoramica che, non potendo dare su un belvedere reale, come in laguna, ne cercherà uno metaforico nella mente dello spettatore. E nell’ambito stesso dell’operazione artistica.
L’esigenza dell’infinito, di spazi illimitati, di conche inondate di sole, assume i connotati dei paesaggi alpini, dove ampie vallate si stendono, raccolte da limitanti cornici di catene rocciose, che le impreziosiscono. Così nella scultura di Schabus il vuoto acquista consistenza solo in virtù del recipiente che lo contiene, capace di creare una barriera, “che da tanta parte il guardo esclude” tra l’opera d’arte (il dentro) e ciò che c’è fuori, raccordati da una finestrella, che diventa l’unico punto di contatto tra i due mondi. Ma non solo.
L’installazione si presta ad altre, ulteriori interpretazioni. Può essere un discorso sull’abitazione, ad esempio, inteso come luogo intimo e privato. Non a caso queste costruzioni non si limitano ad una ripartizione di spazi, né alla soluzione del labirinto. Malgrado man mano si salga verso la sommità la struttura cerchi la congestione, utilizzando il sistema della scala a chiocciola o della torre, gli interni di Schabus seguono sempre un’organizzazione razionale -da appartamento- e vengono connotati dalla presenza fantasmagorica di oggetti.
Una mappa, che alla mera segnalazione di luoghi aggiunge, caratterizzandoli, immagini, fotografie, ritagli, per esempio. O un video, una ripresa di una delle vallate amate dall’artista, che ci riporta per un attimo, con la freschezza di una veduta del Canaletto al tema della finestra sul mondo. D’altronde in questo momento l’arte contemporanea cerca spesso una collusione con architettura e design. Chi ha avuto modo nei giorni scorsi di bazzicare il Salone del Mobile se ne è potuto rendere conto.
Si pensi, altrimenti, ai vari Atelier Van Lieshout, a Tobias Rehberger o ai più nostrani A12. Per questi artisti la reinterpretazione del problema della “casa” si lega indissolubilmente con le pratiche più specificamente progettuali, talvolta assumendosi una responsabilità sociale. Che contesta alla contemporaneità la carenza di spazio e la necessità di occupare gli interstizi, con soluzioni, tuttavia, talvolta, sfacciatamente leccate non sempre originali e felici. Connesse ad un’idea di design elegante, seppur proletario, ancora in embrione. Schabus, invece, abituato alle grandi distese e ai freddi rigidi degli inverni montanari, parrebbe, almeno formalmente, infischiarsene delle contestazioni. O delle ricercatezze. Preoccupato, invece, da questioni più dolorosamente esistenziali. Incline a confrontarsi con la solitudine dell’immensità, fino ad amarla ed invocarla nell’erezione di piccoli eremi nostalgici all’interno di una più sguaiata, altezzosa, consolatoria mondanità.
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