Dalle radici di una rosa sale il gambo del primo fiore, il lungo corpo del primo amore, la filamentosa treccia della vita che prima o poi dividerà chi la vive da chi l’ha già passata. In questo modo, in un giro carovanesco, si alternano le vicende dell’individuo che ha gli occhi presi, spalancati. Si tratta di un tipo d’uomo che non vive svampito dall’altezza aerea degli olimpi creativi, ma che senza tregua trasforma e traduce, un bandito flaneur, uno come Fabien Verschaere (Parigi, 1975). Artista francese con un ricco percorso espositivo alle spalle (una presenza anche al Palais de Tokyo), Verschaere sviluppa un intenso parallelo fra il calpestio del quotidiano e la simbologia delle saghe mitologiche. Il tutto mixato e infine rischiarato dalla visione premonitrice delle gamme cromatiche, colori come parole al posto delle parole.
In occasione, dunque, dello Start milanese, il primo grande via alla stagione d’arte contemporanea in città, Galica apre le porte ad uno sperimentatore inquieto. Con Copycat Verschaere, prende pieno possesso delle pareti, isolando gli spazi a seconda dei racconti e delle tinte scelte. Quando i temi virano al nero, ecco comparire esposti una serie di acrilici su carta che affastellano senza interruzione vicende e fantasmi sanguinolenti. La narrazione simbolica e volutamente stratificata lascia chi osserva senza fiato, senza accesso in caso di sguardo da mera superficie. Ogni disegno rappresenta una tragica variazione dei temi dell’inganno, del gioco, della vendetta, della rinascita senza morte e della vita senza interruzione. In questi disegni il tratto a china è netto, sottile e –umido-, se così si può definire un tipo di linguaggio compositivo fluido, non arido insomma. Quando invece la passione si manifesta e si fa più forte, le pareti esumano i colori degli acquerelli e compaiono le mappe metaforiche dell’artista francese.
I soggetti rappresentati sono un carosello di corpi in amore, di fiori, di rami, fantasmi a forma di teschio e ninfe a forma di alberi. Una mistura rivisitata di innesti impressionisti e preraffaelliti. In questo caso, le campiture cromatiche servono per costruire e decostruire accostamenti inattesi, ma non del tutto imprevedibili.
Decisamente da notare, invece, l’installazione che dà il nome alla personale. Con Copycat, il valzer mortifero della rappresentazione termina nell’inferno lussureggiante dell’alter-ego, della copia. Un manichino, somigliante all’artista, indossa una maschera da satiro, nell’atto di banchettare. Dietro di lui è stato disposto un pannello istoriato da continue figure nere su sfondo rosso. L’ennesima sfumatura della vita che viene fuori senza genesi e senza necrosi, come un atto impastato di sovrapposizioni ed eleganti ex-cursi inconsci.
ginevra bria
mostra visitata il 22 settembre 2006
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stiamo comunque parlando di un artista NANO