Long Sorrow è il titolo dell’ultimo lavoro dell’albanese Anri Sala (1974, vive a Berlino), scelto per rappresentare la sua prima personale italiana in un contesto pubblico. Ma “lungo lamento” sembra anche essere il filo conduttore della sua ricerca artistica, ben ripercorsa da questa mostra milanese. L’artista infatti, lavora da sempre, attraverso l’uso di delicate e impalpabili metafore, sulla dimensione della sofferenza, del cambiamento, del dramma collettivo che si traduce in dramma personale, intimo.
Il video Uomoduomo (2001 Leone d’Oro alla Biennale di Venezia) è il lavoro più vecchio in mostra. La triste malinconia del vivere emana prepotente: la figura di un uomo, di aspetto non più giovane e trasandato, forse un mendicante, ciondola in modo quasi ipnotico seduto su una panca del Duomo di Milano. Una nenia visiva, due minuti di respiro corto. L’uomo sembra cadere, poi un cenno inconscio riporta in posizione quasi eretta il suo capo, per poi lasciarlo lentamente cadere di nuovo. Il noto curatore Daniel Birnbaum ha commentato: “C’è qualcosa di tranquillizzante e magari anche di soporifero nella ripetizione. In fondo è il meccanismo che sta alla radice non solo delle ninnananne ma anche delle tecniche dell’ipnosi. Alle volte però la monotonia della ripetizione può diventare addirittura irritante, insopportabile, quasi una tortura”. E davvero tutto il peso che sembra gravare -anche fisicamente- su quest’uomo sembra entrare nelle ossa, negli occhi, tramutandosi in una sofferenza e una stanchezza che trascendono verso una dimensione universale.
Con un salto cronologico viene da accostare questo lavoro al più recente Long Sorrow (2005), prodotto dalla Fondazione Nicola Trussardi. In questo accostamento l’accento passa dalla dimensione personale del singolo a quella più complessa e potente della società: il film è ambientato in un quartiere periferico di Berlino -città dove oggi l’artista vive– in cima ad un enorme palazzo austero e nello stesso tempo cadente, dall’atmosfera post-comunista.
Unico protagonista il noto musicista jazz Jemeel Moondoc che, sospeso a mezz’aria fuori dalla grande finestra di un appartamento del palazzo, improvvisa un dolore e un abbandono che solo le note, ora acute, ora profonde, di un sassofono possono esprimere.
È il dolore del quartiere intero, cattedrale decadente alla quale gli abitanti stessi hanno dato il nome di “lungo lamento”, lungo come le note che riempiono la grande stanza -dal passato sfarzoso- dell’edificio che ospita il Circolo Filologico Milanese. E davvero la location non poteva essere più adatta: immersa in un’atmosfera demodé, in un luogo che testimonia una grandezza che non è più.
Ma se la dimensione poetica sembra prevalere in questi lavori, ben altro linguaggio domina altre ricerche di Anri Sala. Lavori in cui i protagonisti, spesso anche animali, rimangono come sospesi in una dimensione lontana e distaccata dalla realtà, quasi senza interferire con l’occhio della camera che li riprende. L’indecisione di un cavallo immobile sul bordo di una strada di Tirana in Time after time (2003), o la caccia incalzante e ossessiva ai granchi di Ghostgames (2002), portano in scena l’assurdità del presente. E il punto di vista è quello di personaggi marginali, inadatti, spettatori troppo piccoli di fronte a ciò che accade e incapaci di comprendere. Politica e intimità si incrociano, e per un attimo sembrano illuminate da uno stesso squarcio di luce, di suono. Di niente.
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