I nuovi spazi della galleria Raffaella Cortese, per questa prima personale italiana di Miroslaw Balka (Varsavia, 1958), si coprono di un buio assoluto, da cui le opere emergono come tracce di luce silenziosa. Forme essenziali e regolari, materiali poveri, fasci luminosi che disegnano cerchi instabili, in cerca di una posizione. Il tema del tempo domina e inchioda l’occhio.
Il buio è tempo continuo, privo di cesure, attraversato da una luce che è scrittura precisa di un segnale.
Due cerchi in ferro arrugginito attaccati alle pareti fungono da canestri, a terra due palloni semi-sgonfi di pelle scura. Intanto un disco luminoso si muove a scatti, a cercare di indovinare il buco: il gioco sta nell’impossibilità della luce di farsi oggetto e di riuscire a fare centro. Allusione minimale e lirica alla ricerca di una esattezza, di un punto visibile, di un cenno. Laddove il tempo rimane un’astrazione non misurabile che racchiude il prima, il dopo e l’ora in un unico fluire. Inafferrabile.
Ancora il tempo incerto è quello dei vecchi barattoli di latta che pendono in fila dal soffitto: si muovono lentamente, con un fremito lieve danno un ritmo al buio della stanza. Nessun rumore, però.
Poi, in un angolo, una specie di lettino interamente coperto di sale (elemento primario che evoca lo scorrere, l’acqua, l’accumulazione e la dispersione), sulla cui superficie è ritagliato un cerchio. Sotto il piccolo letto forato compare un recipiente corrispondente alla forma incisa, anch’esso colmo di sale: quasi sembra la parte mancante caduta a terra dopo il taglio, è in realtà uno strano contenitore, forse per cogliere ciò che dal buco si disperde. Perfettamente sovrapponibili, il buco e il l’oggetto cavo – il vuoto e il pieno – si guardano, si specchiano, immobili si spiano. Un terzo cerchio, di luce stavolta, si muove sopra il piano bianco con ritmo irregolare; a tratti si posa sull’anello mancante, coincide col buco, ma subito fugge dalla posizione esatta tornando a scorrere. C’è un suono ad accompagnare il movimento del fascio luminoso, come l’eco sonora di uno sfregamento, come se la palla di luce, divenuta materia solida, scivolasse sul sale grattandolo, spostandone i grani. Incantesimo, induzione sinestetica.
Il sale, il sapone, la cenere, si velano così di significati lontani, le cui radici affondano in una ferita antica. Questo lavoro di Balka giunge a un livello di astrazione alta, esclude ogni presenza umana, concentra le forme e affonda nell’evocazione malinconica. I corpi sono scomparsi. Ma ne restano il sapore, l’impronta, la misura. La materia di questi oggetti perduti è consunta, così come i corpi stessi si espongono alla consunzione della storia.
La presenza e l’assenza si scambiano ruolo e posizione, in un’operazione di denudamento che dalla carne giunge alla traccia e al segno, non riuscendo a dimenticare.
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