In questo momento, mentre le cronache provenienti dalla Russia soffrono di una progressiva inversione di marcia, fatta di misteriosi omicidi a sfondo politico, arresti ingiustificati, reati di opinione e giornalismo corrotto, la ricerca di Oleg Kulik (Kiev, 1961) assume un significato particolare. E il sapore della vendetta. Una vendetta servita con rancore e grazie alla circolazione delle sue opere in quell’Occidente che, rinfrancato dalla caduta del Muro di Berlino, pensa che ad Est vada a tutto a gonfie vele. Kulik è, invece, la dimostrazione vivente di un errore madornale, l’incarnazione di quello stato di confusione e scoramento, dell’oppressione e dei rapporti di forza, portati al limite dell’aggressività brutale che animano l’odierna Russia, fino al preoccupante collasso raccontato dalle ultime notizie.
A tale scenario fanno riscontro la filosofia angosciante e rivoluzionaria dell’artista di Kiev, le sue performance tra la body art e il rito tribale, i suoi amplessi zoofili che valicano con orgoglio il buon gusto e il senso del pudore della collettività. Valga su tutto l’azione I bite America and America bites me , di cui troviamo una documentazione filmata in galleria. La performance, inscenata per la prima volta nell’aprile del 1997 nello spazio project di Jeffrey Deitch richiama sfacciatamente nel titolo I like America and America likes me, la famosa azione con il coyote che Joseph Beuys mise in scena nello spazio newyorkese di Renè Block. Tuttavia il messaggio non è di continuità. Tutt’altro. Mentre Beuys, instaurando con il coyote (simbolo dell’America) un rapporto idilliaco cerca un legame di simbiosi pacifica con la natura e una tregua tra la cultura europea e il made in Usa (ribadita poi nell’incontro dell’81 con Andy Warhol a Napoli), Kulik rinnega ogni possibile time out, si denuda, si fa legare al guinzaglio, ringhia e minaccia d’aggressione tutti i passanti. L’America, insomma. E dando a Beuys, implicitamente, del pagnottista, riapre le ostilità.
Il coyote e l’essere umano divengono tutt’uno, in una metamorfosi dal sapore mitologico. Diversamente avviene nelle foto, valvola di sfogo bidimensionale delle tensioni dell’artista.
Nella serie Museum of Nature or New Paradise l’artista costruisce -con una tecnica che ricorda David Salle– un universo fantastico, dal sapore biblico, una valle dell’Eden fatta di ricordi nostalgici, in cui situazioni bucoliche e corpi di animali si sovrappongono in dissolvenza o sfumano come una semplice allusione. Ritorna alla memoria il rapporto conflittuale tra cultura contemporanea e natura, quest’ultima sempre raffigurata come agonista positivo di una lotta millenaria tra bene e male. E riemerge, non ultima, una visione cristologica del mondo. Fatta di passione e pentimento, nonostante le sconcezze provocatorie che animano il linguaggio dell’artista. Arricchita da un tentativo di redenzione antropologica, attraverso il ritorno alla natura madre.
santa nastro
mostra visitata il 28 marzo 2007
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Oleg Kulik è un’esplosione di rabbia. E’ forza animale, è ribellione. Sfonda la condizione umana e con disprezzo si impasta in altre sembianze, cerca altre dimensioni della carne, siano pur esse animali. E’ un viaggio oltre la presuntuosa forma dell’homo sapiens, denso di critica.