Come in un diacronico gioco di specchi allestito negli spazi storici (erano già studio personale di Lucio Fontana e sede della Galleria Casoli) della nuova galleria milanese, gli occhi neri di un Urs Lüthi trentenne quasi si riflettono sul vetro delle fotografie di un signore dei nostri tempi, calvo e grassoccio ma dallo stesso inconfondibile nasone aquilino: il Lüthi di oggi si confronta faccia a faccia con il Lüthi di ieri. Sono infatti in mostra alcune delle celeberrime fotografie in bianco e nero su tela degli anni ’70, autoritratti o serie composte di scatti, come i lavori dal titolo ricorrente I never saw a woman smile in Marocco o le polaroid incorniciate, e con un balzo temporale di un trentennio, fotografie, sculture e geometrie di slogan e colori acidi della serie Art for a better life, presentata nel
Urs Lüthi, svizzero teutonico, atipico bodyartista in grado di cimentarsi con i principali mezzi espressivi (agli anni ’80 appartengono le opere di pittura, non in mostra), pioniere del travestitismo tanto da dettarne l’estetica e la maniera (da David Bowie e “The Rocky Horror Picture Show” in poi), si rappresenta oggi per quel che è, uno nella massa, un normale individuo occidentale, preso (o distratto) dai problemi esistenziali e dai dubbi pratici della ricerca di “una vita migliore” . Gli slogan ossessivamente presenti nelle opere astratte come imperativi di autostima (I have no fear, I deserte it, LOVE) sono la sintesi dei suoi pensieri da uomo qualunque, ironicamente, ma impietosamente additati e sublimati, concentrati sull’idea di benessere, in una sottile satira umana e sociale sui comuni e a volte banali valori di vita.
L’azione del tempo non è solo nella rappresentazione dell’invecchiamento fisico, prima superficiale impressione che non sfuggirebbe neanche ad uno spettatore disattento, ma risiede soprattutto nel diverso modo di percepire se stesso: se i vecchi ritratti denunciano un’accurata scelta della posa, dell’espressione, dello sguardo e lasciano spazio più alla suggestione che alla riflessione, le nuove rappresentazioni, anche quelle più elaborate come le sculture, riproducono la casualità del momento comune, in un iperrealismo agli antipodi del raffinato estetismo precedente.
L’evoluzione tecnica dell’autorappresentazione, partita dalla fotografia e maturata nella scultura, mantiene intatta quella sensazione di piccolo fastidio generato da immagini sempre urticanti, pur nella loro eleganza, come intatta rimane la percezione della particolare complicità tra l’opera, oggetto-soggetto, e l’artista, voyeur di se stesso e creatore della propria identità.
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