L’immagine asporta l’istante, schiantandolo. L’immagine fotografica, in particolare, estrae il momento e lo scontorna, sottraendo tempo al flusso matematico del tempo stesso, al di là della sua avara meticolosità. E lo scatto prende a somigliare a quel che si è perso, finito da qualche parte, senza parole. Il risultato è una concrezione, un affastellamento di più piani: quello del giorno, quello del pensiero, quello della luce e infine quello dello spegnimento. Così su carta rimangono le tracce perse di ciò che sarebbe successo se. Ashley Reid (New York, 1983), in questo senso, reinterpreta, dall’interno, la fotografia, completando i propri se in sospeso.
I lavori esposti sono fotogrammi ricomposti, un assemblaggio postumo della realtà, in rivisitazioni assiepate con lucida ironia. L’elemento che fa da perno è il corpo dell’artista, sempre in primo piano; i suoi lavori sono pose per l’autoscatto. Spontanei sguardi in tralice, attorniati da sceneggiature costruite su misura, allestimenti giusti a fasciare pochi metri quadri di set fotografico. Quel che stupisce e rimane, di queste immagini, è il disordine e l’ingenuità.
Disordine perché i racconti contenuti sono pastiche: disegnati, dipinti, incollati e poi lisciati dalla fotografia finale dell’insieme. Questo effetto d’impiallacciatura crea movimenti che staccano e mettono in risalto la sola figura reale, al vivo di ogni immagine. L’artista stessa. Lei è l’unica medesima protagonista a vestire i panni del proprio –vero- corpo, carne che non subisce trasformazioni cartoonistiche. Nei lavori esposti, infatti, la Reid si inserisce nelle proprie sceneggiature giocando un ruolo assoluto. Ruolo che permette di raggiungere il come e il dove esatti, l’istante ultimo nel quale premere il bottone dell’autoscatto. Il finale riserva a chi guarda l’accesso a quel mondo immaginifico che l’artista ha scelto, inventato, costruito e infine realizzato in sé e per sé. Immortalandosi per riemergere dal fondo ricordo in cui ha fatto ritorno.
Ed è questo ostinato ricostruire pittorico che conferisce ai lavori della Reid un’aura di semplicità canzonatoria. La condensazione dei dettagli compositivi dona ad ogni fotografia l’ingenuità bambina che li ha creati. Segni infantili che lasciano in sospeso, tra il sorriso e lo sconcerto. Lo scetticismo che si percepisce di fronte ad ogni immagine arriva quasi cadendo, spinto dalla velocità del tratto e dalla distribuzione cromatica. Entrambi elementi poco sgrossati nell’uso della composizione di sottofondo. Sono i tratti di chi disegna il mondo da una finestra, ricalcando quel che c’è fuori su un foglio appoggiato al vetro. Perché, forse, è il solo modo rimasto per far scorrere solitudini, abbandoni, messe-in-mostra, miserie, vergogne e tristezze. Con la leggerezza di chi sa di ricordare e la pesantezza di chi, come un corpo, sa di dover dimenticare.
ginevra bria
mostra visitata il 14 luglio 2006
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