Tre parole, metamorfosi-delle-forme, racchiudono la vicenda artistica di Jòan Mirò (Barcellona 1893 – Palma di Maiorca 1983). La mostra della Fondazione Mazzotta, con opere tutte successive al 1960, documenta la fase finale della “metamorfosi”, privilegiando Mirò scultore. Senza dimenticare il pittore, con una coinvolgente galleria di opere su carta e tre oli.
Mirò inizia con la pittura, con tele che hanno i colori brillanti e violenti dei fauves;
Nel 1920 si trasferisce a Parigi. A contatto con l’ambiente surrealista libera la propria immaginazione, i suoi sogni. Il punto di partenza è ancora l’osservazione della realtà, ma i singoli dettagli diventano i protagonisti delle sue opere, deformati e rimodellati dall’immaginazione dell’artista; inizia la “metamorfosi delle forme”. Il suo linguaggio pittorico evolve in un sistema di segni e colori, un alfabeto di simboli fantasiosi con i
Le opere su carta esposte in mostra (acqueforti, acquetinte, disegni) presentano un’ulteriore fase della sua pittura: i segni grafici, l’affascinante alfabeto di stelle, lune, cerchi, pesci diventano più rari, sostituiti da una struttura di segni neri intrecciati attorno ai quali galleggiano macchie di colore, spruzzi di vernice. C’è l’eco della pittura di Pollock , del dripping che in quegli anni si affacciava nel mondo dell’arte. Le figure si trasformano in colori, rosso, verde, giallo e blu. In Personaggi e stelle (1976) Mirò riesce a far immaginare un cielo che brilla di stelle, semplicemente disegnandole come fanno i bambini, con pochi tratti intrecciati.
Anche in scultura il punto di partenza è il dettaglio insignificante, l’oggetto qualsiasi e la ricerca di una realtà oltre l’apparenza. Mirò comincia con assemblages di oggetti comuni, “facendo leva sulla banalità, esalta l’immaginazione in una metamorfosi delle forme…di grande impatto”. Negli anni ’60 comincia a fondere in bronzo le proprie creazioni: l’ispirazione viene sempre dall’objet trouvé, una scatola, un cucchiaio, una zucca che non entra più direttamente nella composizione, ma è riprodotto in bronzo e assemblato in una “scultura vera”.
Le sculture scelte dal curatore (Jean-Louis Prat) provengono dalla Fondazione Maeght, dove sono sparse in un giardino, che fonde natura e arte, creando una sorta di paesaggio archetipico. Opere di piccole dimensioni, fuse in un bronzo ruvido e scuro, una molteplicità di invenzioni nelle quali si riconoscono gli oggetti ‘primari’, che non rappresentano più se stessi, ma suggeriscono qualcos’altro. In Orologio del vento (1967) la scatola e il cucchiaio sono diventati “parole” di un linguaggio immaginario con le quali Mirò racconta i suoi sogni.
Sul finire degli anni ’60 le sculture diventano coloratissime: il bronzo è levigato e ricoperto di colori brillanti, gli stessi che riempiono le tele. C’è grande ironia in Sua Maestà (1967), una zucca gialla incoronata con qualcosa che potrebbe essere un biscotto o un bullone sagomato. Ragazza che fugge (1968) è ottenuto con le gambe di un manichino, una pentola, un mattone e un rubinetto, trasfigurati in un’opera di grande intensità emotiva, i cui occhi spaventati sembrano muoversi in dissonanza con le gambe sottili da indossatrice. “La poesia si fa con tutto (se non da tutti)” (Joufrroy).
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