L’accesso alla mostra, che si propone di raccontare La provincia di Milano nello sguardo contemporaneo di 12 fotografi, è costituito da una prima sala che sa di stanza dei bottoni. Torretta di controllo illuminata dalle cifre rosse e fluorescenti, che cercano di tastare il polso della città attraverso le statistiche. Ma i numeri non riescono a rendere a Milano una propria identità finale. La rassegna solleva dubbi, a volte scopre autentiche falle nel sistema; talvolta emergono risposte, più spesso si guarda e spera nel futuro. L’impressione è quella di una situazione dinamica e propositiva al livello dell’iniziativa singola, persona o istituzione, mentre risalta l’assurda mancanza di una prospettiva d’insieme. Si affidano follemente le grandi risoluzioni all’aleatorietà composita di diverse individualità, perché Milano non sa dire nulla di se stessa ma molto dei propri personaggi.
Per cominciare, la vita culturale risulta meno imbrigliata di quanto si immagini. Massimo Siragusa (Catania, 1958) osserva spazi differenti ma accomunati dall’offrirsi ad accogliere l’avventore, nel rispetto della dimensione umana, che promana persino quando sono deserti. Biblioteche e librerie, teatri e musei, si caratterizzano per un ordine sereno, candido, a volte addirittura foriero di meraviglia. In perfetta concordanza con quanto invita a fare Ermanno Olmi: ignorare l’aspetto citazionista ed istituzionale della cultura per recuperare uno sguardo innocente, indifferente al già detto.
Insolita è anche la visione che Stefano De Luigi (Colonia, 1964) dà del celebrato settore dell’alta moda meneghina. Non è la stereotipata identità aggressiva e corrosiva che passeggia lungo le passerelle, quanto un sottile gioco di maschere, identità evanescenti e corpi bellissimi percepiti solo di riflesso. Un lato nascosto, fragile e delicatissimo, di un mondo altrimenti sempre illuminato. Emerge una consonanza con la realtà giovanile osservata da Alex Majoli (Ravenna, 1971), un disagio nel non saper collocare l’ultima generazione attraverso connotazioni ambientali, mentre affiorano gesti e volti autonomi, proiettati in una dimensione slegata, onirica ed introspettiva. La città è invisibile, un alone scuro attorno alla visuale circoscritta del giovane, che percepisce la propria presenza hic et nunc come accidentale.
Altri temi risultano per contro il trionfo della socialità e la base dell’integrazione. Le immagini di Riccardo Venturi (Roma, 1966) ritagliano singole individualità dallo sfondo aperto della gente: l’appartenenza al gruppo resta primaria. Emblematica la fotografia dei tifosi in piazza Duomo durante l’ultimo campionato mondiale di calcio, addirittura si parla italiano più che milanese. All’insegna della comunicazione affronta il suo argomento anche Enrico Bossan (Dolo, Venezia, 1956), che riconosce Milano come capitale dei servizi più che dell’industria. Quasi degli stereotipi, se non fosse per l’informalità da reportage, le fotografie spiano gruppi organizzati, una moltitudine in fermento, policentrica e vitale, ma in ogni caso impegnata, febbrile. Molte persone, molti carrelli della spesa, molti monitor. Eppure l’ordine dettato dalla finalità. Dove anche il silenzio è denso, è una pausa di riflessione.
Impeccabili infine le presenze silenti di Gianni Berengo Gardin (Santa Margherita Ligure, 1930), maestro d’equilibrio nel chiaroscuro che non tramonta mai, discreto osservatore degli outsider di Milano, quelli che con infinita dignità vogliono testimoniare la loro volontà di esserci, di rientrare. L’importanza del vivere senza scadimenti zuccherosi, con estrema sobrietà linguistica. Dignitosi anche gli sguardi dei sofferenti di Guido Harari (Cairo, 1952), che lancia flash violenti su carni ferite e provate dal tempo, ma non per questo meno resistenti allo sguardo. Occhi e pose che si oppongono ad una condanna troppo facile.
L’aspetto eroico è proprio quanto si perde a guardare Milano dalla distanza. Gabriele Basilico (Milano, 1944) si arrende davanti ad una città diffusa: niente emergenze architettoniche eccellenti, solo cantieri e prospettive infinite di strade da riempire di relazioni più che di angoli caratteristici. Con atteggiamento fattivo, il fotografo rileva la mancanza di integrazione tra poche strutture vagamente futuristiche e molte infrastrutture di riempimento. Il conflitto è insanabile anche tra l’urbanizzazione e l’atavico elemento naturale, che Daniele Dainelli (Livorno, 1967) reinterpreta in chiave drammatica, quasi epica: a cieli violacei e luci livide si accompagnano scorci di natura ancora selvaggia, luoghi chiusi ed assediati ma ancora carichi di mistero.
caterina porcellini
mostra visitata il 12 giugno 2007
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Un'illustrazione "zen e minimalista", l'essenziale di quanto serve sapere senza annoiarsi della città di Milano, con una selezione di 5-6 foto al massimo per autore.
Non è certamente esaustiva come mostra, e alcune immagini in vero potrebbero essere luoghi appartenenti ad altre città europeee, ma è anche vero che Milano non è sempre Duomo-Castello-Arco o Brera-Navigli-Parco.
Numeri di tubi luminosi rossi, su fondo nero, fanno la contabilità della città.
Gradevoli le interviste di personaggi ad altri personaggi (da VIP a VIP) che introducono a livello grafico testuale, ogni sezione fotografica a tema.
Angelo Errico