Alle pareti s’aprono finestre. Saranno almeno una quindicina. Teatrini chiusi dal sapore retrò. Nicchie di luna park senz’aria, senza profumo di dolciumi. Scenari senza alcuna profondità di campo, gabbie dorate per la vita e per la vista, costruite per incollare lo sguardo, sottrarlo e infine portarlo via, rapito senza possibilità di ritorno. Questi sono i mondi che troverete, mondi appesi alle pareti, visuali senza cielo, angoli cresciuti protetti, all’interno di un mondo mai nato. Questa che, seppur descritta in miniatura, potrebbe sembrare una breve allucinazione, è in realtà un’impressione veloce, una rapida carrellata a picco su una serie di dipinti che in galleria danno il via alla prima personale italiana di
Khalif Kelly (Nashville, 1980; vive a New Haven).
Dell’artista si sa pochissimo. Il giovane pittore americano ha studiato pittura all’Art Institute di Chicago e all’Università di Yale. Si è dedicato poi, nel 2001, a un periodo di meditazione e distacco, auto-finanziandosi una residenza di quattro mesi a Firenze, dove ha analizzato la pittura del Rinascimento italiano. Interessante, infine, estratto dal suo curriculum, anche il fatto che abbia partecipato a una collettiva – anche se dal titolo un po’ collegiale,
Summer Show – allestita negli spazi industriali di Thierry Goldberg Projects di New York.
A Milano, invece, Kelly deve confrontarsi con gli spazi
domestici della Galleria De Cardenas. Le stanze dedicate alla mostra, unità semi-abitative che si susseguono complanari, fortunatamente non offrono una visione d’insieme, immediata dei lavori, ma favoriscono un “consumo” più lento, agevolando una sorta di camminata fra i paesaggi del pittore. Scenari che, infine, assumono un’andatura lenta, zuccherina e scandita da ritmo regolare. Ogni dipinto, rigorosamente affrontato nel 2008 e quasi sempre di grandi dimensioni, offre punti di vista variabili, perché altamente variabili sono le dimensioni scelte per ciascuna tela. Ecco perché, passando da una stanza all’altra, si prova sempre un particolare senso di estraneità alla scena che ci si trova di fronte, rappresentata secondo diverse proporzioni all’interno dei riquadri.
I soggetti scelti da Kelly fanno parte di una bolla sociologica ben precisa. Sagome e figure infantili, quasi sempre di carnagione meticcia, limitano il campo delle possibili sperimentazioni pittoriche, restringendo l’universo semantico del giovane americano a un collage bidimensionale giocoso, monotematico e dunque rassicurante. L’assenza di prospettiva, i colori caramellati e l’impostazione ferma dei personaggi raffigurati, inoltre, riportano l’occhio alle forme piene e tonde di un
africanisme americano. Un limite interno che, al fondo di ogni delicatezza, scherza col faceto.