Marion Baruch, Un passo avanti tanti dietro ph. Leonardo Morfini
«Nata tra le due guerre, nel 1929, a Timisoara, Romania, non più Temesvàr, Ungheria. Sono nata molto vecchia per ringiovanire vivendo. Ora posso dire che sono giovane». Le parole di Marion Baruch si leggono sulle pareti del primo piano al Museo Novecento, dove è ora allestita Un passo avanti tanti dietro, la più ampia retrospettiva a lei dedicata. La mostra, curata da Sergio Risaliti e Stefania Rispoli e visitabile fino all’8 ottobre 2025, è omaggio a un’artista cosmopolita: inafferrabile come la neve, in divenire come lo scorrere del tempo, libera come un filo d’erba. Nata in Romania, Baruch ha attraversato i confini geografici e culturali vivendo e lavorando tra Israele, Francia e Italia. Il progetto presentato al Museo Novecento di Firenze si estende anche negli spazi di Manifattura Tabacchi e Polimoda, che hanno collaborato attivamente alla realizzazione della mostra e che, per l’occasione, ospitano anche una serie di installazioni ambientali.
Nel corso della sua lunga carriera, Baruch ha esplorato linguaggi diversi senza mai legarsi a una sola forma espressiva: dalle arti visive alla moda, dal design alla scultura. È proprio l’illimitata libertà della donna a dare vita a opere originali e sorprendenti: sculture, dipinti, installazioni, oggetti e immagini che sfuggono a ogni definizione. La sua ricerca è attraversata dai principali movimenti dell’arte contemporanea – dal Concettuale al Minimalismo, fino alla Critica Istituzionale all’Arte Relazionale -, pur mantenendo sempre una voce propria, autonoma e inconfondibile.
Al centro, Baruch pone temi legati a lavoro, migrazione, linguaggio, femminismo, patriarcato, società dei consumi e internet. Il percorso espositivo accompagna i visitatori attraverso le molte fasi della sua produzione: dai primi lavori di metà degli anni Sessanta, passando per le sculture performative e le opere realizzate con designer come AG Fronzoni e Dino Gavina, la collaborazione con la Galleria Luciano Inga Pin di Milano, la nascita di NAME DIFFUSION negli anni Novanta, il periodo parigino con le opere relazionali e partecipative realizzate in collettivo e, infine, i lavori in tessuto prodotti dopo il Duemila, con il suo ritorno in Italia a Gallarate, per i quali è ampiamente riconosciuta a livello internazionale.
«Non ho bisogno di una patria specifica, di una bandiera, di una religione. Possiedo un passaporto italiano molto prezioso da quarant’anni. Lo stato di Israele esiste, tragicamente, da 57 anni. È un sogno di libertà quello che ho appena espresso, probabilmente lo stesso di milioni di persone, di tutte le nazionalità e religioni. Tutti coloro che si dichiarano cittadini del mondo, e non lo sono che di un solo paese, non possono buttare via la loro carta d’identità». Solo attraverso l’arte e le nuove tecnologie si possono immaginare repubbliche libere, accessibili a chiunque desideri farne parte”.
Sono queste le parole di Marion Baruch nel contesto che stiamo per analizzare. Nell’estate del 1996, nel più ampio progetto Name Diffusion, Marion Baruch presenta l’opera Code Your Soul alla mostra Escape Attempts, organizzata da Globe a Christiana (Copenaghen). L’artista riflette sul concetto di identità analizzando i modi in cui il nome individuale si afferma nella società contemporanea. Sfruttando le possibilità offerte da internet, la donna invita i visitatori a “codificare la propria anima” scegliendo una dozzina di parole, tra il serio e il giocoso, da inserire su un sito web, oggi non più attivo. Il progetto apre la strada a nuove modalità di espressione e diffusione dell’identità, sfidando i limiti fisici, visti come un ostacolo. Tuttavia, Baruch non ignora i rischi insiti nel mondo digitale: un volantino che accompagna l’opera avverte con grande ironia: “Save your soul in infernet”.
«Nel 2009 avviene un cambiamento radicale nella mia vita e di conseguenza nella mia espressione artistica […]», afferma Marion Baruch. Questa frase segna simbolicamente l’inizio di una nuova fase del suo percorso: l’artista torna a firmare con il proprio nome e dà vita a Une chambre vide (Una camera vuota), progetto che si inserisce nella trilogia Mon corps où es-tu? (Mio corpo, dove sei?) e che rappresenta una tappa significativa della sua riflessione sul vuoto. Un concetto che l’artista reinterpreta come spazio di libertà e possibilità creativa, in continuità e insieme in contrasto con artisti come Lucio Fontana e Yves Klein. Marion Baruch svuota la stanza di lavoro del suo bilocale in Rue Sorbier, nel XX arrondissement di Parigi, e la trasforma in un luogo aperto all’incontro.
Con un breve annuncio, l’artista invita migranti, rifugiati, stranieri e sconosciuti a condividere con lei pomeriggi fatti di scambi, parole e persino silenzi. È in quello spazio vuoto che si attiva l’energia relazionale, che l’artista descrive come Rencontre dans une chambre vide (Incontro su una spiaggia assolata in una camera vuota) evocando la luce che, entrando dalla finestra, disegna rettangoli sul pavimento, chiamati plage du soleil (spiaggia del sole) e plage de la lune (spiaggia della luna). Quel semplice riquadro di cielo osservato collettivamente diventa simbolo di una pausa dal caos quotidiano, di uno spazio condiviso in cui la meraviglia per il tempo che scorre e la necessità di comunicare superano ogni barriera linguistica e culturale.
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