Chris Soal, Spillovers: Notes on a Phenomenological Ecology, MAXXI Roma
C’è un’Africa che non si lascia raccontare, perché non appartiene al linguaggio, ma alla carne della materia. È un’Africa che respira, che suda, che odora di ferro e di sabbia, dove ogni cosa ha un’anima, e ogni anima ha un corpo. Lì lo spirito non è separato dalla terra, ma le scorre dentro come linfa antica; la luce non illumina, ma brucia; il silenzio non tace, ma preme. È un mondo tellurico, dove la vita nasce dal basso, dalla polvere, dal lavoro delle mani, e il sacro non è nei templi bensì nelle cose. Da quel grembo scuro e fertile proviene Chris Soal (n. 1994), artista sudafricano cresciuto a Johannesburg e oggi attivo a Città del Capo: uno scultore che trasforma lo scarto in visione, l’ordinario in epifania, la ruvidezza in un canto di pietra e di luce.
La sua pratica scultorea, acclamata a livello internazionale, si fonda su un dialogo continuo con la materialità, la percezione e il concetto di luogo. Nel suo studio di Città del Capo, Soal lavora con pazienza artigianale e lucidità concettuale, affrontando la materia come un corpo pensante, in cui ogni superficie conserva tracce di vita. La sua ricerca esplora la relazione fra l’essere umano e gli oggetti che lo circondano, ridefinendo il corpo come luogo di conoscenza e percezione. Le sue opere mirano a una poesia della semplicità, capace di interrogare le gerarchie sociali e i sistemi di valore che definiscono la nostra idea di ciò che conta e di ciò che si scarta. Nel progetto Spillovers: Notes on a Phenomenological Ecology, curato da Cesare Biasini Selvaggi e ospitato al Corner MAXXI fino al 27 novembre 2025, Soal costruisce un paesaggio di presenze silenziose. Tappi di bottiglia, stuzzicadenti difettati, fili metallici, frammenti di cemento, tondini di ferro, cavi elettrici e carta vetrata diventano materia viva, parte di un racconto sulla trasformazione e sulla dignità delle cose. L’artista lavora in simbiosi con i materiali, lasciandosi guidare dalle loro caratteristiche fisiche, e attraverso processi di aggregazione, combinazione ed erosione trasforma l’effimero in forma stabile, l’informe in linguaggio. Le sue tecniche restano un segreto custodito, come se la genesi dell’opera dovesse rimanere silenziosa. Non è un atto di chiusura, ma di rispetto: lasciare che le sculture sembrino autogenerate, nate da sé, come se la materia avesse deciso da sola la propria forma. È un gesto di fiducia verso una forza invisibile che l’artista sa riconoscere e assecondare.
Nel suo modo di lavorare si avverte l’eco della bottega rinascimentale, dove il sapere era condiviso e il fare un atto di devozione. Anche qui la creazione è dialogo: ogni frammento partecipa, ogni materiale suggerisce la propria via. L’artista non domina, accompagna. Le mani seguono la resistenza delle cose, assecondano la loro indole, e la forma nasce dall’incontro tra volontà umana e volontà materica. La meraviglia scaturisce da questo equilibrio fragile. Non è stupore, ma rivelazione: l’attimo in cui la materia si oppone e, proprio in quella resistenza, mostra la sua verità. Il limite diventa possibilità, lo scarto linguaggio. Soal non inventa, scopre: e in questo gesto umile e paziente la bellezza trova il suo spazio.
Il suo Sudafrica non è soltanto un’origine geografica, ma una condizione interiore. È un territorio che unisce dolore e fecondità, ferita e germinazione. Da questa consapevolezza nasce la sua ecologia empatica, un modo di pensare il mondo come un insieme di relazioni vive. Ferro, sabbia e cemento non sono materie inerti: conservano memorie, vibrazioni, tracce di esistenza. Le sue opere, spesso intese come astrazioni sociali, riflettono l’esperienza di vivere in una città come Johannesburg, dove le contraddizioni del contemporaneo diventano metafora del fragile equilibrio tra natura e civiltà. Il camouflage, tema ricorrente nel suo linguaggio, racconta questo bisogno di appartenenza. Come le zebre che si proteggono confondendosi nel branco, anche le sue sculture si fondono in un unico corpo visivo. È un gesto che parla di armonia e guarigione: la superficie si fa comunità, il frammento trova rifugio nell’insieme, come se l’arte potesse ancora ricucire ciò che la storia ha lacerato. Solo avvicinandosi si percepisce la moltitudine di elementi che compone l’opera: piccoli frammenti, tappi, stuzzicadenti, fili metallici. Oggetti ruvidi, pungenti, persino ostili al tatto, che da lontano sembrano invece morbidi e sagomati, come se la durezza della materia volesse travestirsi da tenerezza. È una dicotomia fra sostanza e apparenza, fra ciò che si mostra e ciò che realmente è, dove l’occhio e la mano non coincidono e l’ambiguità diventa poesia.
Dopo dieci anni di ricerca, Soal approda a Roma con un linguaggio maturo e mobile. Le spirali, le concrezioni e le superfici vibratili che abitano al MAXXI non sono oggetti statici, ma processi vitali: forme che si espandono, che respirano, che continuano a mutare sotto la luce. Ogni opera è una soglia tra passato e futuro, tra memoria e metamorfosi. Il titolo della mostra, Spillovers: Notes on a Phenomenological Ecology, scelto dal curatore chiarisce il senso profondo di questa ricerca. Spillover significa tracimazione, oltrepassamento, e nelle opere di Soal tutto sembra davvero debordare dai propri confini. La forma non si chiude, ma si prolunga nello spazio; la materia oltrepassa se stessa e diventa esperienza, percezione, incontro.
Cesare Biasini Selvaggi interpreta questo principio con una curatela discreta e risonante. Lo spazio non impone un ordine, ma un ritmo. Le opere convivono come presenze autonome e dialoganti, immerse in una luce che cambia con le ore, rivelando dettagli sempre nuovi. È una mostra che invita alla lentezza, all’ascolto, alla sospensione. La luce naturale del Corner MAXXI è parte viva di questo racconto. Filtra dalle vetrate e si posa sui dischetti consunti, sugli stuzzicadenti, sul cemento e sui tappi, creando ombre mutevoli come battiti. Non illumina, ma rivela: accompagna la metamorfosi, fa vibrare le superfici, dà corpo all’invisibile.
La mostra è accompagnata da una monografia edita da Silvana Editoriale che ripercorre l’intero percorso di ricerca di Chris Soal, con testi di Giuliana Benassi, Cesare Biasini Selvaggi e Alessandro Romanini. Un modo per prolungare nel pensiero ciò che, davanti alle sue sculture, si manifesta come pura rivelazione: la certezza che anche la materia, se ascoltata con rispetto, sa parlare di noi.
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