Nero/Alessandro Neretti, Masquerade, 2025. Installation view, Atipografia, Arzignano (VI). Ph. Eleonora Vaccaretti
«Quando entri a Dakar, la città ti bacia». Ma il bacio di Dakar, per quanto il termine possa alludere a immagini poetiche, esula da scenari soavi o erotici. Il bacio di Dakar parla alla gola, alla densissima coltre di smog che invade la capitale senegalese, e che per questo dà il benvenuto ai forestieri baciandoli metaforicamente, lasciando loro quel mal di gola persistente tipico di chi non è abituato a simili livelli di inquinamento. Dakar non bacia i locali, bacia gli stranieri. Dakar non sembra riciclare la plastica, a Dakar i sacchetti si lasciano per la strada, eterni come sono, come sempre saranno. Dakar è stanca: «elle est fatiguée» perchè Dakar non acquista ciò che le manca, lo reinventa con quello che ha, con quello che trova. Dakar che ha imparato storicamente il francese, Dakar che oggi convive con cinesi, europei e americani. Dakar è la città che usa le proprie mani e se le sporca, la città dai mille colori e dai mille tessuti, dalle mille contraddizioni che abitano le strade; Dakar dai rumori assordanti, e da altrettanti assordanti silenzi. Dakar che si vede sostituire villaggi e terreni agricoli con palazzi di cemento multipiano, che conosce nuove infrastrutture, nuovi porti, luoghi che non parlano più wolof ma cinese, inglese, francese.
Nero/Alessandro Neretti intercetta tutto questo, intercetta le sfaccettature della capitale così come sono, con grande curiosità. Nei 21 giorni della sua residenza nella Medina, si fonde con un contesto che è ricco, vibrante, e allo stesso tempo spaventoso e allarmante. Così autentico nei rapporti umani intrattenuti, nelle radici culturali distintive, e allo stesso modo così estraniante e disturbante nella cruda constatazione del cambiamento in atto. Un cambiamento locale, ma che sembra inseguire un processo di allineamento globale – forse innaturale, forse forzato, forse semplicemente inevitabile?
Neretti capta questo humus culturale e lo traduce in ‘Masquerade’, fino al 2 Agosto presso Atipografia di Arzignano, con un testo critico di Milovan Farronato, inglobando scultura, videoarte, pittura e fotografia. Solo tramite una lettura che abbraccia ogni forma di epressione è forse possibile interpretare e tradurre quello che gli occhi di Nero hanno esperito durante la residenza. Le famose e simboliche maschere della cultura tipica africana acquisiscono segni un tempo a loro estranei, come titoli o loghi di brand francesi, tedeschi, giapponesi e svizzeri, appartenenti ai settori dell’edilizia, delle infrastrutture della comunicazione, dell’automotive e dell’alimentare.
Segni nuovi, che si relazionano inequivocabilmente con il neo-colonialismo. Spetta a noi la lettura e l’interpretazione: Neretti ci restituisce, con estrema lucidità – e non senza franchezza – uno stato di fatto al tempo zero. Allo stesso modo, una baguette, nell’opera S’il te plaît, colonise-moi, presenta l’omonima scritta incisa e specchiata sopra un objet trouvé, per porre l’attenzione sulle tecniche del nuovo soft colonialismo economico. Sulla parete di fondo, le note di viaggio: ventitré disegni a tecnica mista raccontano le impressioni di Neretti: rottami di auto, la presenza preponderante della Cina all’interno della capitale, e palazzi in costruzione che sembrano scheletri. I ventitré disegni costellano un copriruota bianco, successivamente lavorato da Neretti e inciso a mostrare uno smile. Cinismo?
All’interno della mostra, oltre ad una restituzione della Dakar contemporanea tra la cultura locale fortemente radicata e le nuove influenze globali, si sviluppa parallelamente un’altra chiave di lettura – più personale, più umana e altrettanto significativa: quella della vicinanza dei rapporti umani che Nero ha potuto costruire nella capitale. Neretti ne riconosce l’importanza, e il valore. Lo si vede chiaramente in Grand vase noir e Grand vase albinos: «Questi siamo io e Moussa», spiega Nero. E poi, in Deux amis, racconta di come quei due vasi in ottone, completi di paragambe da ciclomotore, non siano altro che due persone che si aiutano e vivono insieme, una accanto all’altra. Nero sposta quei vasi, li contempla, gioca con loro, poggia al suolo uno, poi l’altro. E se ne gira uno, l’altro lo incastra «in un’unione perfetta». C’è della poesia nel modo in cui Nero racconta e muove la propria arte. C’è della poesia, anche a Dakar.
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