Installation views “Dreaming the End”, Sin Wai Kin at Fondazione Memmo 2023. Courtesy the artist and Fondazione Memmo, photo Daniele Molajoli
È un sentimento, quello che lascia emergere Sin Wai Kin, indefinibile, sospeso tra tenerezza e malinconia, ironia e dramma, familiarità e alienazione. “Dreaming the End”, la sua prima mostra personale in Italia, alla Fondazione Memmo con la curatela di Alessio Antoniolli (che conosce dai tempi di Gasworks), riflette sull’oggettivazione del corpo e la cultura che lo regola attraverso la pratica dello storytelling.
Il video in lingua inglese, che dà il titolo alla mostra, Dreaming the End – anticipato da un’installazione di poster con un’estetica che si richiama agli anni ’80 – si muove tra il registro narrativo e quello reale e gioca con tempi, spazi, luoghi e riferimenti, mettendo in discussione i processi normativi che regolano le categorie identitarie.
Girato interamente a Roma, in tre ambientazioni di grande fascino (gli interni di Palazzo Ruspoli, i giardini di Villa Medici e gli spazi del Palazzo della Civiltà Italiana), e frutto della residenza che Sin Wan Kin ha fatto, a più riprese, alla Fondazione Memmo, Dreaming the End crea una storia che si racconta e si rinnova attraverso la ripetizione, evolvendosi e cambiando a seconda di chi la narra e chi l’ascolta.
«Ogni volta che la racconti (la storia), cambia un po’»
«Ogni colta che la ascolto, la storia cambia un po’»
(estratti da Dreaming the End)
Quattro personaggi si incontrano e si muovono attraverso lo spazio narrativo, scambiandosi e alternandosi l’uno con l’altro. La fluidità dei loro corpi e delle prospettive, tecnicamente enfatizzata dalla scelta di mostrare il corto in loop, concorre alla definizione di un movimento ciclico in cui, dice Sin Wai Kin: «niente è definito chiaramente, le cose non iniziano e non finiscono, nascere e morire oscillano in un flusso costante».
«C’era una volta un nome che viveva nel nome con il nome. Insieme hanno dato nomi a nomi e tutto era nome e nome. Nome disse a nome, nome nome nome è nome». (…) «Quando chiamo il tuo nome, sei immobile mentre l’universo si trasforma intorno a te? Lascia che ti racconti una storia».
Binariamente siamo portati a pensare che il primo estratto coincida con l’inizio e il secondo con la fine. Ma se provassimo a recuperare il senso costruttivo del dubbio – che non è perplessità cinica – accoglieremmo, con maggiore predisposizione, quanto il cambiamento sia fondamentale. Dreaming the End è, a tutti gli effetti, un invito a farlo, adottando una coscienza non-binaria, per sciogliere la rigidità di certi schemi e lasciare che le nostre esperienze ci facciano evolvere.
In gioco ci sono concetti tanto astratti quanto condivisi come la trasformazione, la percezione, e il rapporto dialettico e reciprocamente dipendente tra il nostro corpo e la realtà. Relativismo? No, è piuttosto relazionismo, ovvero un modus del pensiero di cercare di capire come siano fatte le cose attraverso le loro relazioni interne ed esterne. Che cos’è la realtà, secondo il principio per cui le relazioni sono primarie e i termini derivati, se non un’emergenza momentanea di rapporti in divenire?
«È come se stessi guardando la cosa diventare se stessa in questo momento, come se ti stessi guardando mentre mi guardi. Stiamo davvero vivendo questo momento, stabilendo questa relazione insieme. Sto tirando fuori il significato dalle vibrazioni nell’aria e li sto mescolando insieme in costrutti più complessi, dentro i quali mi trovo. Significanti che si trasformano mentre io provo a trattenerli con i nomi». (estratto dal film)
“Dreaming the End” si completa, nella sala adiacente al video, con l’esposizione dei costumi di scena, parrucche e trucchi riportati su salviettine struccanti, rispondendo alla domanda di che cosa resti: ovvero la possibilità che un’azione passata assurga sempre, nell’adesso di riferimento, a nuova vita.
«Ogni volta che la storia è vissuta cambia un po’».
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