Categorie: Mostre

L’amore come insurrezione: Lovett/Codagnone al PAC di Milano

di - 18 Luglio 2025

Fino al 14 settembre 2025, il PAC di Milano ospita I Only Want You to Love Me, la prima grande antologica dedicata al duo Lovett/Codagnone, a cura di Diego Sileo.
La mostra è più di un semplice progetto espositivo: è un corpo vivo, una narrazione visiva che ripercorre la simbiosi artistica tra John Lovett e Alessandro Codagnone, un sodalizio interrotto nel 2019 a causa della scomparsa di Codagnone, ma la cui tensione creativa resta intatta, tagliente e necessaria.

Come si racconta una delle prime coppie queer dell’arte contemporanea? Come si omaggia un mondo spesso confinato nella sfera della pornografia? Quanto il potere distorce la verità? Spaventa di più il buio o la luce?

Foto di Nico Covre

Fotografie, video, installazioni, performance e sculture si susseguono in un percorso espositivo che esplora la dialettica tra potere e soggettività, corpo e norma, desiderio e controllo. L’intera mostra si configura come un corpo emotivo e politico, dove ogni opera interroga il visitatore, ne assorbe lo sguardo, rendendolo complice e testimone.

Fin dall’ingresso, l’opposizione tra bellezza e dissidenza si manifesta con Love Vigilantes (2007): uno skyline di specchi neri su cui si stagliano frammenti di Hakim Bey. In questa prima sala la parola si fa immagine e il linguaggio visivo diventa gesto formale. Il nero, la pelle, le borchie dominano la stanza, o meglio, l’intero linguaggio artistico si fa anarchico, proibito, altro. La prima sala racconta un sogno, il Sogno americano, quello della libertà e delle possibilità. Ma è un sogno decadente, non più a stelle e strisce, bensì una bandiera nera che nega il senso stesso di libertà. Con Stripped (2006), bandiera americana “spogliata”, si racconta un’America dolente, simbolica e personale, dove il lutto diventa critica.

Foto di Nico Covre

L’intera mostra, che non segue un criterio cronologico, racconta i legami profondi tra le logiche del potere e tutti gli ambiti dell’esistenza: politico, sociale, intimo, personale e, ovviamente, sessuale. È proprio il potere a distorcere la realtà, come suggerisce Truth Is Born of the Times, Not of Authority, installazione concepita nel 2012 per il Museo Marino Marini e articolata su un doppio registro, visivo e sonoro, evocando un’atmosfera quasi carceraria. Si accede all’opera attraverso una barriera di rete metallica dal titolo You Must Not Want to See Everything (2012). Oltre questa soglia, tre rotoli di filo spinato fungono da casse acustiche e diffondono un brano dei Candidate. Su questa base si innesta un estratto da Vita di Galileo di Brecht, un inno alla libertà del pensiero critico. È significativo che esso provenga proprio dal capitolo dedicato all’Inquisizione. La seconda sala diventa così un tentativo di dimostrare che la verità è figlia del tempo, non dell’autorità, o almeno così dovrebbe essere.

Tra le opere più cariche di malinconia e riflessione storica, Death Disko: Last Dance (2015) evoca la fine degli anni Settanta e l’irruzione di un decennio più rigido e repressivo, attraverso la ripetizione estenuante di un brano di Donna Summer. È un passaggio epocale che diventa eco intima e politica. Similmente, After Roxy (1998–2015), serie fotografica di nudi intrecciati, ritrae corpi che reclamano affetto, famiglia e spazio. È il racconto della fine di un’epoca, di una storia, di un luogo dove la cultura queer si incontrava, si trasformava, si mescolava. Racconta un palco rotto, un funerale che restituisce dignità alla disco music.

Foto di Nico Covre

L’opera omonima della mostra, I Only Want You to Love Me (2004–2025), è forse la dichiarazione più limpida e vertiginosa: una frase al neon, rubata a un film di Fassbinder, che da confessione diventa slogan, richiesta collettiva, amore esposto. Oltre a sintetizzare la poetica del duo, omaggia anche uno dei maggiori registi del Nuovo Cinema Tedesco, sottolineando lo stretto legame tra cinema e pratica artistica queer.

Seguono grandi cubi fotografici, simili ai portafoto degli anni Settanta, che ospitano scatti dei due artisti in abiti leather/BDSM, realizzati negli anni Novanta. In un’epoca ancora segnata da forte omofobia, queste immagini diventano veri e propri atti di esposizione politica. Ritrarsi in spazi pubblici, non pensati per accogliere corpi queer, è un atto di rivendicazione. Le immagini, posate e costruite, parlano di vissuti ancora oggi tabù: tra una cinghia nera e una foto sotto la Madonnina, si inscenano momenti ambigui nel quotidiano, con ironia e calore. È una sfida alle norme, un’apertura a pratiche silenziate troppo a lungo.

La poetica nasce da una storia, da un hard disk dimenticato, da un’opera mai realizzata. Il PAC, con John Lovett e Diego Sileo, mette in mostra un lavoro inedito, ideato da Alessandro Codagnone ma mai prodotto in vita. Il percorso si chiude con In Darkness There Is No Sin / Light Only Brings the Fear (2025) che sovverte i codici tradizionali, attribuendo alla luce il ruolo di controllo e sorveglianza, mentre il buio diventa spazio di liberazione. È un ribaltamento continuo, etico ed estetico, che attraversa tutta la mostra. Chi ci ha raccontato che i mostri si nascondono nel buio? Qui accade il contrario: si riconosce la responsabilità dei governi, dei censori diurni, dell’incasellamento quotidiano delle nostre vite. La routine, il lavoro, ci lasciano liberi solo di notte, quando i bordi si sfumano, quando i confini diventano invisibili.

Ad arricchire il progetto, la Project Room ospita Matrimoni imperfetti. Storie e immagini dall’Archivio della Galleria Emi Fontana (1992–2009), a cura di Giulia Zompa. Non un semplice “fuori mostra”, ma un contrappunto curatoriale che restituisce il clima fertile e complesso della Milano artistica tra anni Novanta e Duemila. Attraverso materiali d’archivio, inviti, cataloghi, fotografie, video, si ricostruisce la parabola di una galleria che ha fatto della sperimentazione il proprio statuto, sostenendo visioni radicali: femministe, ecologiste, queer. Il titolo, tratto da una mostra del 2002, allude al legame profondo e talvolta contraddittorio tra artista e gallerista: un matrimonio imperfetto, certo, ma generativo.

Il dialogo tra la pratica curatoriale di Emi Fontana e l’universo di Lovett/Codagnone non è solo storico, ma concettuale. Entrambi hanno creato spazi di dissenso, fragili e tenaci, in cui l’arte diventa luogo di attrito e possibilità. I Only Want You to Love Me è, infine, una dichiarazione: non solo d’amore, ma di poetica. Un invito a leggere il corpo come spazio politico, l’affetto come atto rivoluzionario, l’arte come gesto necessario. In un’epoca in cui le identità vengono normalizzate e anestetizzate, Lovett/Codagnone riaprono la ferita per farne rumore insurrezionale.

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