Leonor Fini, Senza titolo (opera presente in Fruits de la Passion, 1980), Fotolitografia, Abano Terme, Museo Villa Bassi Rathgeb (donazione dell’ambasciatore Ugo Gabriele de Mohr) © Leonor Fini, by SIAE 2025
Che in campo artistico la provincia veneta sia tutt’altro che marginale è ormai un fatto risaputo. Lo stanno dimostrando, con la ricercatezza dei loro progetti, realtà consolidate come la Fondazione Bonollo a Thiene, Atipografia ad Arzignano e, oggi, anche il Museo Villa Bassi Rathgeb di Abano Terme, che con la mostra Leonor Fini e la collezione grafica Bassi Rathgeb. Segni e invenzioni dal Rinascimento al Novecento propone un progetto racconto in cui la grafica e più in generale le opere su carta diventano lente per leggere e ri-leggere cinque secoli di storia dell’arte.
La mostra si apre nei suggestivi ambienti dell’ipogeo, dove il percorso cronologico si snoda dal Rinascimento all’Ottocento. Qui le opere —tutte parte della collezione permanente del museo— emergono come frammenti di una memoria visiva condivisa: studi, fogli preparatori, incisioni e acqueforti raccontano una storia dell’arte alternativa, fatta non solo di capolavori compiuti, ma di processi, tentativi, copie e variazioni sul tema. La grafica appare, in questo contesto, come campo di sperimentazione privilegiato, più che come arte “minore”.
Ad aprire il percorso è il delicato Studio per il piccolo Cupido dormiente, oggi restituito alla mano di Bernardino Campi, in cui il corpo infantile della divinità è definito da un tratto preciso in matita rossa. Colpiscono anche i Capricci di scheletri di Paolo Vincenzo Bonomini: figure grottesche e teatrali, intente a riprodurre gesti quotidiani, oscillano tra ironia e inquietudine, offrendo una rappresentazione della morte lontana da ogni moralismo.
Il percorso attraversa poi incisioni derivate da Tiziano, Jacopo Bassano, Guercino, Zais e Longhi, componendo una mappa fitta di rimandi e trasformazioni. Qui la grafica non funziona come riproduzione servile, ma come dispositivo critico: ogni stampa rielabora, interpreta, riscrive l’originale, contribuendo a costruirne la fortuna e la diffusione.
È su questo ricco corpus che si innestano —letteralmente e spirtualemente— le opere di Leonor Fini, recentemente donate al museo. Allestiti su pannelli di un viola profonda, i lavori creano un piacevole contrasto con la luminosità degli affreschi e ne amplificano l’effetto teatrale. Il colore crea un fondale quasi scenografico per le 24 opere su carta esposte, restituendo al visitatore l’impressione di entrare in uno spazio altro, più raccolto, più introspettivo.
Le figure di Fini abitano un immaginario sospeso tra sogno e mito: corpi androgini, volti felini, posture ambigue, sguardi che sembrano sempre sul punto di oltrepassare la superficie dell’immagine. Pur vicina ai Surrealisti, l’artista ha sempre mantenuto una posizione autonoma, non riconducibile a un’unica corrente ed effettivamente: nelle sue opere, confluiscono suggestioni che vanno dal Manierismo italiano alla pittura fiamminga, dal Romanticismo tedesco all’illustrazione fantastica, dando forma a un linguaggio personalissimo, libero da categorie rigide.
Il percorso è arricchito dal bozzetto di scena realizzato per l’Orfeo presentato alla Biennale di Venezia nel 1951 e da una selezione di fotografie d’archivio che documentano il lavoro di Fini come costumista e scenografa. Sono, questi, gli unici elementi prestati per l’esposizione, essenziali nel restituire il profilo di un’artista profondamente legata al teatro e alla costruzione dell’immagine come evento, come apparizione.
La forza della mostra sta proprio in questo montaggio tra il corpus storico e la sezione moderna: da un lato la lunga durata della tradizione grafica, dall’altro una figura che ha fatto dell’indipendenza e della metamorfosi il centro della propria poetica. Ne emerge un racconto coerente, in cui il passato non è semplice fondale, ma materia attiva. Villa Bassi Rathgeb propone dunque un progetto che dimostra come anche fuori dai grandi centri sia possibile produrre cultura con ambizione e precisione, facendo dialogare le collezioni con una progettualità critica contemporanea.
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