Gianluca Patti, My Eyes Are Full, 2025. Installation view, Galleria SimonBart, Bologna
La mostra My Eyes Are Full di Gianluca Patti alla SimonBart di Bologna si offre come un terreno scivoloso, dove ciò che appare immediatamente evidente — colore, brillantezza, superficie — è in realtà soltanto il primo strato di un processo che vive di sovrapposizioni e paradossalmente, di sottrazioni. È il paradosso di ogni pittura che lavori sulla materia come se fosse memoria condensata. Più aggiungi, più togli. Più copri, più fai emergere.
In questa dialettica, Patti sembra muoversi con una consapevolezza ferina, quasi una fenomenologia della superficie. La sua è una pratica che si è nutrita degli echi di Pollock, Vedova e Richter, ma che si è emancipata dall’espressionismo gestuale per approdare a una sorta di “geologia del colore”, dove ogni opera diventa un terreno stratificato, inciso, levigato, scarnificato. L’artista lavora come se la pittura fosse un corpo e insieme un archivio e l’atto creativo un gesto di libertà capace di misurarsi con la propria storia personale.
La parola sovrapposizione qui non descrive soltanto la tecnica, è un dispositivo concettuale. Le resinature, le densità cromatiche, i ritorni del materiale sottostante generano uno spazio ambiguo, in cui il visibile è contaminato dall’invisibile. Si potrebbe citare Merleau-Ponty, quando descrive la pittura come “intersezione di linee di visione” o Derrida e la sua logica della traccia, in cui ciò che persiste non è mai ciò che si mostra interamente ma ciò che filtra da una superficie all’altra. A questo si innesta con precisione chirurgica Barthes, con la sua distinzione tra studium e punctum: il primo è ciò che riconosciamo, la soglia culturale che ci permette di entrare nell’immagine; il secondo è la ferita, il dettaglio che irrompe e ci attraversa.Nelle opere policrome di Patti questa tensione barthesiana è evidente. Il colore stratificato funziona come studium, un terreno che accoglie e orienta lo sguardo, mentre il ri-affioramento improvviso della materia sottostante agisce come punctum, cioè come un punto di rottura che punge, destabilizza, costringe a rivedere ciò che si credeva già compreso.
Patti lavora proprio su questo filtrare: lascia che il colore sedimenti come un ricordo ostinato, che riaffiora pur essendo stato sepolto. Nei lavori policromi la sovrapposizione è fisica e mentale. Il colore affiora come un’emozione che non si decide a prendere forma completa, preferendo rimanere in quello stato liminale in cui la percezione si fa instabile. Nelle monocromie, al contrario, il discorso si ribalta: la sottrazione diventa un gesto radicale, quasi ascetico. La riduzione cromatica non è un calmante, ma una concentrazione e una messa a fuoco. Qui Patti applica una logica vicina a quella di Rothko o di Klein, ma senza deriva mistica. Nel suo caso il monocromo vibra perché è costruito per differenza, per erosione progressiva del superfluo.
Il ricorso a materiali come cemento e resina — eredità familiare e autobiografica — introduce un altro livello di lettura. La sovrapposizione non riguarda solo il colore, ma la storia stessa dell’artista, che si innesta negli strati come un’impalcatura inavvertibile. Patti sottrae materia per lasciare emergere un passato che non è nostalgia, ma struttura portante. Ogni opera si comporta come una superficie che respira (come il suo primo murale), che assorbe e rilascia, come quel muro della città di Milano che porta addosso il passaggio del tempo, consumato e ringiovanito da mani di vernice che respirano.
La mostra, nel suo insieme, suggerisce che la libertà dell’artista non si misura nell’assenza di limiti, ma nella capacità di giocare con essi. Sovrapporre significa accogliere il caos, ma anche dominarlo; sottrarre significa disciplinarlo, ma anche rischiare il vuoto. Patti danza tra questi due poli con una sicurezza inquieta, che restituisce finalmente al colore il suo statuto originario. Non decorazione o superficie ma esperienza percettiva totale. My Eyes Are Full non è un titolo ornamentale né un cedimento lirico. Funziona come una soglia. Gli occhi dell’artista — e poi quelli dello spettatore — sono colmi fino all’orlo di colore, memoria, residui, tracce che non trovano mai un punto di stasi. È una dichiarazione di saturazione percettiva. Non uno sguardo contemplativo, ma uno sguardo che trabocca. E quando lo sguardo trabocca, inevitabilmente qualcosa scompare, viene cancellato, sottratto per lasciar emergere un resto nuovo. In questo attrito tra eccesso e mancanza, la pittura torna a essere un territorio in cui vedere, smette di essere un gesto automatico e diventa una scelta precisa, quasi un atto politico della percezione: vedere troppo per poter vedere davvero.
Le opere di Patti “si danno a guardare”. Non cercano complicità, ma disponibilità. In questo continuo scambio tra ciò che affiora e ciò che viene sottratto, la pittura torna a essere un terreno in cui il vedere smette di essere un gesto riflesso e torna scelta consapevole. E, sotto ogni superficie accuratamente levigata, continua a pulsare — ostinata, indomabile — la possibilità della pittura come spazio di libertà.
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