Secondo appuntamento, dopo quello del 2004 con
Mimmo
Paladino, per un
altro maestro protagonista della collezione post-sismica
Terrae Motus: Ernesto Tatafiore (Marigliano, Napoli, 1943).
E proprio lì, a Caserta nelle nobili sale della reggia
vanvitelliana, custodi dal ‘92, con grande invidia napoletana ma per volere
dello stesso Lucio Amelio, di quel fecondo e riuscitissimo tentativo di
rispondere alla forza della catastrofe tellurica con l’energia dell’arte.
La ricca personale, agganciata come
sequel sul percorso della mostra
permanente, è un incomprensibile ma significativo viaggio nel disordine
sistemato del pensiero. T
atafiore, con un nome che è già tutto un programma per
leggerezza (tata più fiore, andava amabilmente sottolineando la sua poetica amica
Fabrizia Ramondino), da bravo psicanalista qual è, sembra porsi silenziosamente
in ascolto, dando vita a un inarrestabile flusso di coscienza.
Attraverso una semplicità disarmante, dipinge con la
stessa priorità e urgenza macchinine rosse, barchette fra le onde, pesci grandi
e piccoli che guizzano e s’inseguono indifferenti, polpi, violini, eroi della
storia e del mito. Flashback incontenibili, come indicava Freud dei sogni. Immagini
infantili che agguantano i ricordi, mentre l’occhio cala dolcemente sul
miscuglio delle campiture ariose e brillanti.
Tatafiore gioca con la vita, con la storia, con la fantasia,
camminando nello spazio e nel tempo fino al Futurismo, intrecciando Stalin con
Dante, Lenin con
Boccioni, Robespierre con Mao, Nuvolari con Masaniello, fino a
confondere i livelli e le dimensioni, rendendo tutto possibile, al di là della
ragione e della percezione comune delle cose. Sulle onde medie e corte di
Radio
Mozart.L’arte come la vita interiore, insomma, meravigliosa e
assillante nei reiterati incontri non voluti, negli incubi ricorrenti dei
fantasmi, nelle manie ossessive, nelle debolezze verso la libertà procace femminile,
capace di confondere persino un fedelissimo Dante
. O, al contrario, la vita interiore
come l’arte, dignitosa, equilibrata, elegante e armonica, per raccontare anche
tragedie umane colossali, inattese ma inevitabili come il Titanic
.E poi le sculture metalliche, in quella prima sala
interamente gialla e grigia, che stride e sembra far fracasso, nel caos delle
citazioni allusive, nei continui giochi di parole, nei rimandi che fanno rumorosamente
sorridere. Amplificando, quasi, il silenzio della sintonia dei colori che verrà
dopo.
Si parte e si riparte in questa passeggiata luminosa, e si
arriva a destinazione felicemente pieni di dubbio e malinconia. Senza aver
raggiunto alcuna verità sociologica o storica, anche perché volutamente lasciati
allo sbaraglio in un percorso che non è cronologico e ha il vezzo di presentare
con sciatteria la già scarna didascalia, come se fosse stata lasciata lì per
caso.
Una mostra per pochi, forse, quando sottolinea che le cose
più utili sono quelle che per logica non servono a niente. Sono lì a farsi
guardare, come la rosa che “
fiorisce perché fiorisce, non bada a se stessa,
né si cura d’esser vista”.
Senza perché.