Le mostre del Pan èra Draganovic hanno un che d’insinuante, che fa breccia dopo un primo impatto non particolarmente incisivo. Va da sé che non tutto può convincere in una collettiva (due esempi:
Claude Closky e
Ubermorgen), ma per tenere il livello uniformemente alto occorrerebbero ben altre risorse rispetto a quelle centellinate a Palazzo Roccella.
Di queste esposizioni, allora, forse non si ricordano bene i
nomi, spesso estranei al mainstream prezzemolino (qui fa eccezione
Felix Gonzalez-Torres, col suo mitico tappeto di caramelle take-away), però ne resta impressa la
filosofia, dipanata secondo un filo logico d’incalzante semplicità. Illustrare senza declamare. Proporre senza imporre. Riflettere senza scervellarsi. E con un tocco leggero e ironico, possibile anche in un cimento così arduo come
L’impresa dell’arte.
Lo dimostrano gli
0100101110101101.org, col massiccio battage per il fantomatico monumento alla Nike nella storica Karlsplatz di Vienna. Un attacco al sistema condotto come una guerriglia graffiante e provocatoria, in cui spara a raffica pure
Yevgeniy Fiks, vistosi sistematicamente rifiutare dalle biblioteche delle multinazionali l’acquisto del libricino di Lenin sull’
Imperialismo. Segno che lo spettro del comunismo ancora atterrisce l’Occidente ultraliberista, che però continua a sfruttarne icone (la “statua vivente” del Che di
Christian Jankowski) e utopie, vedi la proprietà privata spiegata ai bambini nel video dell’israeliano
Guy Ben-Ner, accampato con tutta la famigliola fra gli stand dell’Ikea.
Più amaro e cinico lo sguardo gettato da
Santiago Sierra su un mondo in cui tutto e tutti si vendono, dalle prostitute disposte a farsi ricoprire di poliuretano espanso alle 396 donne che, nel buio dell’ex Casa del Popolo di Bucarest, ripetono ossessivamente “dammi un soldo”. Una monetina che
Susanne Bosch esorta a devolvere a progetti socialmente utili nell’iniziativa
Centesimo avanzato, ascrivibile al segmento interattivo e vagamente umanitario del concept: l’apicoltura dei
finger, che in un tripudio di fiorellini si chiedono se non sia più remunerativo e gratificante produrre miele invece di capolavori; o l’invito a scommettere in loco e on line su uno degli agli selezionati da
Shu Lea Cheang.
Rocciosamente materialista, la mostra sconfessa e ridicolizza ogni romantico tabù sul rapporto arte-denaro, di contro enfatizzato e mistificato da un mercato incline al sensazionalismo con troppi zeri. Sbeffeggiato nella sua lettura più corrente e popolare dalle foto di
Tadej Pogacar o gonfiato fino a scoppiare nel supermercato dove s’aggira freneticamente
Roxy In The Box,
che nella videoinstallazione
KitaKKatt mette alla berlina la bulimia collezionistica. La nevrosi accompagna anche
Danica Phelps, la quale annota meticolosamente le proprie spese accostando colorati codici a barre all’immagine dell’oggetto acquistato.
Altro nodo cruciale è la possibilità per l’artista di
capitalizzare le proprie idee, non tanto confidando nel mecenatismo, quanto facendosi imprenditore di se stesso. Velleità che talvolta cozza contro impedimenti oggettivi, com’è accaduto al succitato Jankowski che, per racimolare i quattrini necessari per un nuovo e ambizioso progetto grafico, ha tentato un autarchico e fallimentare fundraising alla roulette dei casinò.
Conclusione: ieri come oggi, kunst=kapital.
Capitale come la “Bibbia” di Marx (che
Jean-Baptiste Ganne illustra capitolo per capitolo attraverso una serie di 48 scatti a tema).
Capitale umano e sociale. E
capitale come pena, giacché tentare di fare arte in determinati contesti equivale a un eroico suicidio, un atto di follia per sognatori. E il Pan pare messo lì apposta per ricordarcelo.