Leggendo alcuni libri, ascoltando canzoni o guardando certi film, non si può far a meno di constatare (forse con una certa ingenuità) che, nonostante lo scorrere del tempo e l’inarrestabile progresso tecnologico, i disagi dell’animo umano sono sempre gli stessi. Cambiano i modi d’esprimerli, ma le questioni restano pressoché immutate. Negli anni ’50, un giovane adolescente si domandava “
where the ducks went”.
Spunto della collettiva, i sei artisti, attraverso media diversi, si pongono – e pongono – semplici quesiti. “
If the color black runs out with where will the stars live?”; se scompare il giallo, il bianco o il verde, si potrà fare il pane, come potranno le nuvole fare la neve o le vacche mangiare? È ciò che si domanda
Katia Loher attraverso l’installazione di un grosso pallone sospeso al soffitto, su cui una videoproiezione fa muovere delle figurine con in mano una palla. Viste dall’alto, come tante formichine, formano le lettere delle parole delle diverse domande.
La spersonalizzazione del manufatto attraverso la produzione seriale è invece la ricerca di
Pierfrancesco Solimene. Realizzati con la tecnica del colombino ingobbiato – da qui quel senso di crudo – e accuratamente disposti in file ordinate, gli undici catini, nella forma archetipica dei contenitori usati dall’uomo fin dall’alba dei tempi, sembrano prodotti industrialmente, mentre nessuno è identico all’altro.
Così come nessuna delle cucce per cani di
Rosario Vicidomini è identica all’altra. I trentadue piccoli disegni, risultato di un minuzioso monitoraggio del territorio, hanno il curioso merito di render evidente come la fantasia dell’uomo si sbizzarrisca nell’eterno tentativo di umanizzare l’animale e di come la varietà possa, invece, sbocciare all’interno delle asettiche periferie, dominate da un’architettura impersonale e disumana. E l’uomo perde infatti la propria umanità quando usa (o, meglio, non usa) il cervello. Che, nel disegno di
Luisa Rabbia, è portato a spasso come un comune accessorio.
Umanità che viene completamente smarrita in quello che è per antonomasia il simbolo della stupidità e della crudeltà: la guerra. Il desiderio di abbattere l’indifferenza alle sue mostruosità è l’invito di
Zoulikha Bouabdellah. I suoi ricami dorati evocano le vignette del cinema muto. Con il loro lapidario
Silence, scritto in entrambi i versi (destra-sinistra e sinistra-destra, ovvero nel sistema occidentale e orientale), afferma che l’integrazione può portare a una comprensione delle culture, unica via per la pace e la coabitazione.
Conclude il percorso il video di
Damir Očko. Surreale, con picchi di puro romanticismo, l’artista fa muovere i suoi uomini, simili ad alieni, all’interno dell’abbandonato University Hospital, costruito a Zagabria negli anni ‘80 (all’indomani del risveglio dopo la morte di Tito e alla vigilia della guerra dei Balcani) e mai portato a termine. Simbolo del desiderio di rinascita e allo stesso tempo di una totale disfatta, i personaggi si muovono all’interno di questo colosso architettonico, nella speranza di un novello Salvatore in grado di risvegliare le loro anime, sulle note di uno stridulo corno di fronte a un infuocato tramonto.