Chi
fosse abituato al disegno leggero di
Andrea Aquilanti (Roma, 1960), alle sue cromie
evanescenti, alle sue atmosfere chiare e rarefatte, si prepari a un piccolo
choc. La Napoli da lui ritratta è infatti un’istantanea fosca e corrusca che,
nella convenzionalità del taglio prescelto – la più classica delle vedute,
ripresa da una terrazza di Posillipo -, ricalca la pletora di dipinti per
secoli focalizzatisi sull’arco lambito dal Golfo. “Cartolina” che ha
irrimediabilmente cambiato volto, dalla melodiosa Arcadia color pastello alla
turpe colata cementifera modello
Le mani sulla città.
Naturalmente,
critica sociale e documentazione urbanistica non sono tra le preoccupazioni
dell’autore, qui impegnato a potenziare il suo consueto
modus operandi grazie a Lucid, software
sviluppato nel capoluogo campano dal canadese Jason Villmer, già lo scorso anno
oggetto di un breve show alla NOTgallery e che esprime ora, per la prima volta,
il suo potenziale “immersivo” e “interattivo” applicato all’arte.
E
se in passato per Aquilanti la fotografia e la proiezione
intervenivano sul disegno, stavolta ne
costituiscono l’origine e l’esito. Tutto comincia con un’immagine scattata, per
l’appunto, con Lucid Wiever, la cui tecnologia permette un’inquadratura a 360°:
gli obiettivi, dunque, hanno catturato simultaneamente e da più punti di vista
il paesaggio prescelto. La foto “
panottica”
così realizzata è stata poi rielaborata pittoricamente,
secondo uno di quegli scambi digitale-analogico cari alla filosofia della
galleria napoletana: velo su velo, sovrapponendo alla grafica di supporto
sottilissimi fogli di pet, sui quali di volta in volta un singolo colore
evidenziava i dettagli.
Una stratificazione che ha dato luogo a una tridimensionalità
dall’effetto
flou,
o simile alle stampe lenticolari. Ma non è finita qui: i quadri sono stati
ri-fotografati e immessi all’interno di Lucid, sì da rendere possibile la
“navigazione” al loro interno. Basta un mouse e ci si può, insomma, muovere in
lungo e in largo all’interno dell’opera.
Dal
procedimento macchinoso scaturisce, accanto alla variante
hi-tech di una diuturna tradizione, il
nocciolo concettuale dell’esperimento: l’aleatorietà percettiva. Perché quel
che la pittura non dice, o meglio non dichiara, è la sua
reale natura: chiamato a entrare nel
lavoro – siano la proiezione del software o il quadro – lo spettatore si
ritrova infatti disorientato, ignaro o dimentico del tracciato di manipolazioni
che lo ha portato lì. In una dimensione percorribile e tuttavia limitata.
Ma
soprattutto ambigua e falsa, distorta e rielaborata in un fluttuare tecnico che
non genera alcuna flessibilità o concreto abbattimento della barriera
oggetto/osservatore. Sicché chi guarda potrà invadere lo spazio della
creazione, ma non riuscirà a carpirne gli arcani.