Quali artisti hai amato o seguito con particolare attenzione?
A sedici anni mi sono invaghita di Hieronymus Bosch. Poi sono arrivati gli altri: i situazionisti, Luigi Ghirri, Gordon Matta-Clark, Richard Billingham, Semiha Berksoy, Wolfgang Tillmans. In tempi recenti ho molto apprezzato la performance di John Bock alla Biennale di Venezia 2005.
Non ti sentirai un po’ performer anche tu?
Una performer direi di no: il processo di elaborazione di un disegno non ammette la presenza di spettatori. Detto questo, l’assoluta schiettezza nei confronti del foglio di carta è un po’ la mia metodologia di lavoro; la sola regola che osservo durante il processo creativo è di accantonare condizionamenti, limiti e prerogative. Definirei la mia ricerca “sincera”: realizzo dei lavori su carta e poi sto a guardarli divertita e stupefatta, come se fossero spuntati dal nulla.
Non molto. Dopo mille nuove esperienze si sentiva l’esigenza di un momento di riflessione. Aggiungi un sentimento di nostalgia per il fatto a mano, per qualcosa che la nostra società avrebbe deciso di spazzare via. Più che di un “ritorno alle origini” parlerei della voglia di guardarsi un po’ dritti negli occhi.
Personalmente ritengo che il disegno occupi nelle arti visive il posto imprescindibile che tra gli strumenti musicali spetta al pianoforte. Tu perché disegni?
A me interessa l’immediatezza del risultato. Il disegno è il più veloce tra tutti i linguaggi a disposizione, quello che più di ogni altro consente di allontanarsi rapidamente dalla realtà strettamente razionale. Nel mio caso, i tempi della pittura risulterebbero lunghi. La sola cosa che avviene lentamente è individuare il momento migliore per iniziare una sessione di lavoro.
Rapidità d’esecuzione a parte, nei tuoi lavori c’è sempre una qualche idea di movimento, come se il rigore “architettonico” che descrivi venisse minato da un’imprevista componente narrativa. Questo corrisponde in qualche modo alle tue intenzioni?
Mi piace pensare ad un dialogo serrato tra forme architettoniche e forme biologiche. A volte credo di progettare veri e propri edifici, altre volte quelle stesse strutture degenerano diventando quasi dei vegetali.
Quanta importanza riveste la scelta dei titoli? E il formato?
Dei titoli non mi curo granché. Con il formato è diverso: per anni ho lavorato su superfici ridotte, più consone secondo me ad una ricerca di tipo introspettivo. Ancora oggi faccio un po’ fatica a disegnare su grandi superfici, forse perché col foglio ho un rapporto che oserei definire “corporeo”. È comunque mia intenzione arrivare gradualmente a misure più generose.
Ogni foglio è a sé stante. A volte li impagino a due a due, oppure a gruppi, in relazione alla data di realizzazione. In generale ritengo che ogni opera, anche se fa parte di una ricerca di tipo seriale, dovrebbe godere di una sua totalità.
Quali mostre ricordi con più entusiasmo?
Hiddentity e L’Immagine Sottile, alla Fondazione Bevilacqua la Masa e alla Galleria Comunale di Monfalcone. Due collettive arrivate in un momento per me importante.
Una persona cui sei particolarmente grata?
Andrea Bruciati, che ha capito profondamente il senso della mia ricerca.
Molti artisti lavorano in comune, in gruppi o come coppie. Consideri il disegno un ambito off limits per esperienze di questo tipo?
In linea teorica no. Ma si tratta di un’operazione ardua, particolarmente “delicata”, che richiede una notevole dose di sintonia. Personalmente non sono così socievole: quando lavoro la presenza di persone che mi osservano e mi parlano mi infastidisce molto. Mi viene in mente l’atteggiamento dei bambini, che mentre disegnano nascondono il foglio se qualcuno cerca di sbirciare.
exibinterviste – la giovane arte è una rubrica a cura di pericle guaglianone
*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 50. Te l’eri perso? Abbonati!
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