Categorie: Personaggi

IL VUOTO E L’ENERGIA

di - 18 Febbraio 2009
Da quegli occhi si può passare attraverso. Trasparenti, acuti, fortemente presenti eppure accoglienti. Gli occhi di Brian Eno (Woodbridge, 1948), padre indiscusso dell’ambient music, video-artista e produttore, sono come la sua arte: varchi possibili. I suoi paesaggi sonori e visivi sono ambienti praticabili, luoghi attraversabili che non aggrediscono col pieno cui troppo ci ha abituati l’ipertrofico postmoderno, ma che hanno il coraggio di un vuoto energetico e pregno di potenzialità. Che attinge dall’Oriente l’apertura al dialogo, a creare uno spazio che l’altro possa agire, e anche riempire della sua individualità.
Musica composta quasi più da sospesi e struggenti silenzi che da suoni; visioni che traggono potenza mistica da pochi, densi focus di energia. Comprendere Brian Eno significa avere il coraggio di lasciarsi andare all’attesa, al tempo dilatato, al vuoto, a quella sottile vertigine sul precipizio che ci coglie quando ci fermiamo. Così era in Aurelia, l’installazione sonora presentata la scorsa estate nella personale a lui dedicata dal Madre: un meraviglioso nulla riempito di cielo e Sole, del vento e dell’abbacinante riflesso sulle pareti, e dell’imperscrutabile, improvviso arrivare da più direzioni di pochi segni sonori, rarefatti segnali di un linguaggio che da uditivo si fa architettonico, rendendo percepibile lo spazio, oltre che gli istanti del tempo.
Da alcuni anni, la potenzialità visionaria insita nel sound dell’artista si attualizza anche in opere visive, oltre che sonore, di immersivo impatto. Si veda Surrender lounge proposal: 77 million paintings, l’ambiente creato nella stessa occasione per l’interno del museo, arioso dialogo di pochi nodi sonori e visivi col vuoto, in cui letteralmente arrendersi alla bellezza e alla forza delle assenze. Si aprivano le pesanti cortine di accesso alla sala e si spalancava un altro mondo. In un viaggio dantesco, lo sguardo piombava dall’“inferno” saturo di matericità dei pilastri precipitanti verso il basso – stalattiti o tronchi dalla rugosa epidermide – al “purgatorio” della potente spinta ascensionale dei coni kapooriani sul suolo, captatori di energia che fluidamente accoglievano l’illuminazione dall’alto, come se brillassero di luce propria.

Così depurato, l’occhio era pronto per esser condotto, potentemente propulso dalla prospettiva degli elementi scultorei classicamente bilanciati a chiasma, verso l’immateriale “paradiso”, fulcro dell’opera: il trasparente nitore, la vivida cromia del rosone di schermi, un eternamente variabile “mandala da meditazione”. Forme organiche e astratte impercettibilmente scivolanti le une nelle altre, in infinite combinazioni visive e con i suoni dei diversi punti della sala, che specularizzavano in imprevedibile architettura sonora l’inafferrabile flusso ottico.
Il pungolo dolente di romantica sehnsucht si scioglie in Eno nella tersa intuizione dell’armonica ed essenziale compresenza del vuoto della ricerca e del pieno dell’ottenimento, e il fiore azzurro si schiude nell’accecante luce del nettare dorato della contemplazione. Si assiste all’ipnotica mutevolezza della sua opera come si percepirebbe all’infinito il frangersi delle onde o la fiamma crepitante, con la stessa consapevolezza che nessun attimo mai si ripeterà, se non quando noi non ci saremo più a coglierlo.
Brian Eno è il cantore, come Eraclito, dell’unicità degli istanti, del senso pieno del fluire, e nella sua creazione, proprio come – secondo le sue parole – in una “chiesa in cui raccogliersi in meditazione, assistendo a un rito, si contempla l’insita necessità e perfezione del tutto. Il libero movimento di un’energia che ritrova l’eternità in un istante, la potente sensualità del colore e del bilanciamento di forze introflesse ed estroflesse nell’elevazione verso l’infinito, e la pienezza nel vuoto. Sì, da quegli occhi si può passare attraverso. Attraverso il tempo, e attraverso la vita.

Per percepire integralmente Surrender lounge proposal occorrono milioni di anni. È questo il sublime oggi? Un’opera la cui fruizione vada oltre i limiti umani?

Si è usato molto in arte un termine orribile: “interattivo”. Non ha senso, tutta l’arte è interattiva: anche un quadro, senza la sensibilità dell’osservatore, non è completo. In quest’opera ho avuto un’idea diversa, di arte incompleta. Ho costruito un giardino, gettato semi che si sviluppano senza poter prevedere cosa diverranno. Mi sono ispirato, più che all’arte, alla tradizione inglese del giardinaggio… La mia cultura anglosassone mi ha influenzato! Ho quest’opera nello studio, e spesso si visualizzano immagini che mai ho visto, con mio sincero stupore, proprio come se osservassi il crescere di un giardino. Ed è raro che veda qualcosa che mi piaccia davvero. Cerco sempre di creare qualcosa che a me stesso piacerebbe.

La sua musica, concepita per un ambiente specifico, ci immette nell’hic et nunc, insegnandoci l’immersione totale nel reale. Ma ha anche un forte aspetto psicoanalitico, sollecitando memorie ed emozioni. In questa compresenza di realtà e non-realtà può rappresentare il virtuale, la “realtà aumentata” partecipante sia del reale sia del non reale?
Una delle conseguenze che il personal stereo ha prodotto è stata la possibilità di progettare il proprio sound world in modo prima irrealizzabile. Potevi finalmente vivere in un certo tipo di mondo sonoro, proprio come cercheresti un tipo di luce. È parte integrante del tuo nido avere il giusto suono e la giusta luce. L’ambient invitò la gente a pensare al proprio spazio sonoro in modo creativo, a dire: “Qual è il suono della mia vita? In che suono voglio vivere?”. Era deliberatamente un tipo di musica fatta per “sedersi alle tue spalle”, proprio come quella di Surrender lounge proposal: si può conversare, non cattura sempre l’attenzione. Era musica progettata per darti spazio, acusticamente ma anche psichicamente, per donarti la sensazione di aver espanso lo spazio reale ed emozionale in cui vivi e di avere più posti in cui andare.

A volte si avverte nella sua musica un lieve, serpeggiante senso d’inquietudine…

Da anni mi risuonano nella mente queste parole: “Nostalgia per un futuro diverso”. Da giovane amavo figurarmi l’avvenire… E non è come l’immaginavo! Talora penso che ciò che sto realizzando sia quell’altro futuro, che sarebbe potuto esistere. Puoi realizzare quel mondo solo se lo proteggi: in un museo, in una galleria o nella tua casa.

Nel ’96 dichiara a J. Selvin del “San Francisco Chronicle”: “Ho la sensazione che la musica possa non essere il posto più interessante del mondo in cui essere. E ciò sta leggermente minando la mia dedizione nel crearla”. Oggi è così?
Devo dire che ultimamente mi sono divertito molto con la musica. Ci sono alti e bassi. Negli ultimi tempi ho creato molto, con gli U2, David Byrne, Herbie Hancock, i Coldplay, e anche da solo. Sono in buona forma musicalmente ora, ma un’opera come Surrender lounge proposal per me è molto più interessante di qualunque musica. Non è simile a nulla che io abbia visto. È un piccolo territorio che ho scoperto, di cui sono molto compiaciuto: il mio piccolo paese.

Infatti quest’opera, insieme visiva e sonora, è il punto di confluenza naturale e ideale per la sua musica, che è potentemente evocativa di immagini…
Sì, è proprio in questo modo che anch’io percepisco la cosa. È come se questa fosse “tutta la storia”, mentre fare solo musica è “una parte della storia”.

C’è un forte influsso orientale nella sua arte. Come nasce?

Ho viaggiato in Asia e sono stato fortemente influenzato da due concetti dell’estetica giapponese, il wabi e il sabi, che hanno in sé l’implicazione di spazio attivo. Hollywood non ha l’idea che il silenzio o l’assenza possano essere potenti. Il rock e il pop creano cose con cui riempire ogni spazio. Mi ha molto colpito dell’arte giapponese che si crei energia contrastando il vuoto con qualcosa, un oggetto o un suono. Si vede in Surrender lounge proposal: c’è spazio, non ho cercato di riempire la stanza. Gran parte del dialogo interiore che avviene nella mia mente riguarda il creare dei “punti di concentrazione” in una sorta di “spazio energico”. Come quei coni, che sono lì solo per concentrare qualcosa, sono un punto che cattura l’energia per un momento, e tutto è progettato per condurla agli schermi. Ma se lo spazio fosse riempito non funzionerebbe così bene. C’è bisogno del vuoto e di alcuni punti di concentrazione intorno a esso. Avverto, negli ultimi tre o quattro anni, che sto appena iniziando il lavoro che per tutta la vita sentivo di voler fare. Sta solo iniziando a configurarsi, dovevo scoprire la forma da usare. Ho usato i dischi per un po’ e mi piaceva, poi gli schermi video. Ma solo ora sento di essere in grado di mettere tutto insieme in un unico contenitore. È interessante, perché ho sessant’anni, avrei dovuto scoprirlo quando ne avevo venti!

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a cura di diana gianquitto

[exibart]

Visualizza commenti

  • Breve appunto al commento precedente: Eno parlando all'intervistatrice si è congratulato per aver finalmente potuto rispondere a domande interessanti (quel giorno ero presente).

    La comunicazione intesa qui è in parte assimilabile a certe correnti della musica minimale tedesca da Colonia a Berlino, che declinano la struttura delle composizioni attraverso il significato del concetto di "universo". Il senso di questa scuola di pensiero sarebbe che tutta la materia (sia quella fisica che quella puramente concettuale) vaga nello spazio e nel tempo spostandosi in tutte le direzioni ma in un unico verso, senza mai quindi tornare indietro, da cui appunto uni-verso.
    La musica pop nella sua forma canzone è strutturata secondo uno schema di ritorni, detti appunto "ritornelli", un meccanismo estremamente efficace per innescare meccanismi di assimilazione e ricordo a lungo termine. L'universo invece non funziona così. L'universo ricorda solo in senso inconscio, trasforma, percorre, riattualizza. Ecco la musica di Eno trasformarsi nientemeno in una rappresentazione dell'universo...che ne pensate, suggestivo no?

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