Categorie: Personaggi

L’arte da vivere

di - 21 Aprile 2017
Antipolvere come antidoto al tempo che scorre. Una parola che sottende un’azione, la volontà di ripulire e rendere nuovo tutto quello che ha già avuto un passato importante e che oggi è invece dimenticato, lontano. Antipolvere è un’espressione, semplice e chiara, che sintetizza la ricerca di Stefano Arienti (Asola, Mantova, 1961), da più di trent’anni impegnato nell’indagine su una nuova espressività per l’arte del passato, coniugata a una sperimentazione libera e continua su materiali e tecniche. Una pratica che spesso Arienti combina all’ironia, come quando sceglie di tradurre un soggetto aulico con materiali cheap, di riprodurlo su fotocopie, carte da pacchi o su un vinile, oppure quando si approccia alla scultura sostituendo alla ceramica, al bronzo o al marmo di Carrara le pagine di un vecchio numero di Topolino o quelle di un elenco telefonico in disuso. «Voglio togliere al passato la sua polvere, renderlo di nuovo presente», questo è l’intento che ci dichiara Arienti, che abbiamo incontrato a Modena, in occasione dell’inaugurazione della mostra dedicatagli dalla Galleria Civica e intitolata, appunto, Antipolvere utilizzando il nome di un ciclo di opere che Arienti realizza a partire dalla metà degli anni duemila. Si tratta, forse, di una tra le più importanti retrospettive dedicate all’artista mantovano negli ultimi anni, curata da Daniele De Luigi e Serena Goldoni e presentata come l’evento di punta di un’intensa programmazione culturale che la cittadina emiliana ci propone in questo primo scorcio di primavera. Nella Sala Grande di Palazzo Santa Margherita si raccontano circa trent’anni del lavoro di Arienti, dalle opere dedicate a Gustave Dorè (Gargantuà e Pantagruel, 1991) fino agli ultimi esiti della sua ricerca, i due disegni inediti realizzati appositamente per l’occasione, in cui Arienti si confronta con le opere del Romanino e di El Greco.

Partiamo dal principio. Dagli anni della tua formazione, della partecipazione al collettivo Brown Boveri e delle lezioni con Corrado Levi e Luciano Fabro, oggi non hai perso questo continuo interesse per la sperimentazione di nuovi materiali. Cosa rappresenta per te questa continua ricerca?
«Fin dagli inizi della mia carriera ho trovavo molto più stimolante l’utilizzo di materiali che si potrebbero forse definire “poveri” e che trovo abbiano in sé una carica poetica molto forte proprio per il loro essere materiali di consumo, utilizzati di continuo dalla gente».
Il tuo percorso formativo è sui generis: ti sei avvicinato all’arte tardi, in età adulta, dopo aver compiuto gli studi in Agraria. La mancanza di una preparazione tecnica di base, all’apparenza un ostacolo insormontabile, si è poi rivelata un punto di forza.
«Quelle che sono le mie conoscenze nell’arte contemporanea le ho fatte direttamente sul campo. Conoscevo sì l’arte antica e le avanguardie ma non il contemporaneo. Posso definirmi un autodidatta. I teli in PVC presenti qui in mostra per esempio, che utilizzo nella serie Antipolvere sono comuni teli da cantiere ma sono stati per me importanti perché, per esempio, mi hanno permesso di confrontarmi con il grande formato e di approcciarmi ad esso con una sensibilità vicina al disegno. Il segno è poi apparso su di essi subito denso, quasi  pittorico».

Dall’utilizzo di materiali industriali passa anche il tributo alle tante committenze che ricevi, soprattutto da parte di grandi aziende legate alla moda e al design. Quanto esse influenzano il tuo lavoro?
«In realtà sono due cose differenti. Fin da quando ho iniziato a fare arte mi sono rapportato con materiali di origine industriale. E in questa scelta, mi piace sperimentare e confrontarmi con ciò che trovo già in commercio. Mi stimola l’idea di recuperare proprio la loro caratteristica di essere prodotti di consumo diffuso e quotidiano e di vedere come essi si rapportano all’arte e al suo sistema. È poi successo che alcune aziende mi chiamassero per sperimentare in maniera differente materiali nuovi. È stata una nuova sfida che ho accettato in un secondo momento, ma che è un percorso a cui mi sento meno vicino».
Un altro aspetto che torna in questa mostra è il confronto relazionale che molti dei tuoi lavori implicano. Mi riferisco per esempio al “Libro delle Firme” o a “I nomi Ciserano”. Rispetto agli inizi della tua carriera, oggi cosa è cambiato nell’approccio con il pubblico?
«In effetti, la mia è spesso anche un’arte da vivere. Nelle due opere che hai citato l’aspetto partecipativo è essenziale e l’opera prende forma proprio in sua funzione. Nel caso de I nomi di Ciserano, un elenco di nomi che gli abitanti del piccolo paese lombardo hanno raccolto nell’intento di partecipare ad un’azione collettiva, il mio intervento è stato quello di trascriverlo e ricamarlo su dei cuscini, con i quali poi ho composto la grande installazione presente in mostra. I tappeti e i cuscini stessi sono un invito a una seconda interazione da parte del pubblico, che può decidere di sedersi e toccare questo lavoro entrando a far parte di esso. L’opera vive e si trasforma in ogni momento. Diventa un lavoro nuovo ogni qualvolta viene esposto. Il pubblico ne è parte integrante. Se mi chiedi cos’è cambiato in questo rapporto oggi, posso dirti che qualche anno fa la gente non sapeva bene cosa fosse l’arte contemporanea. Questo portava a una certa diffidenza anche nell’interazione, che oggi è venuta meno. Si è molto più coscienti di quello che avviene e dei linguaggi che sono messi in campo. Possiamo dire che l’arte contemporanea è quasi diventata una presenza quotidiana, un fenomeno di massa».

Pensi mai che il virtuale possa essere una nuova frontiera per l’arte relazionale?
«Si tratta di un linguaggio che non ho mai sperimentato, e che conosco poco nonostante alcuni miei lavori siano stati tradotti e riprodotti in occasione di mostre utilizzando anche queste nuove tecnologie».
A conclusione di questo incontro, citiamo le parole con le quali lo stesso Arienti ha presentato la mostra di Modena alla stampa, una riflessione sul senso dell’immagine nel mondo contemporaneo e che in sé racchiude tutta la sensibilità dell’artista per esse: «Viviamo in una specie di dittatura degli oggetti e di conseguenza delle immagini, e potrebbe sembrare che esse debbano solo essere consumate; invece possiamo tranquillamente entrare all’interno di esse, produrne di nuove e farle vivere diversamente, rendendole indipendenti dal passato, ma anche da noi stessi».
Leonardo Regano

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