Categorie: Personaggi

L’Intervista/ Pietro Marino | Io, cronista dell’arte

di - 4 Marzo 2014

Come è noto, una donna delle pulizie ha gettato nella spazzatura alcune opere pronte per essere allestite nella Sala Murat di Bari. Ne è nato un caso mediatico che si è conquistato uno spazio al TG1 serale. Quindi, sembra inevitabile che per avere visibilità una mostra d’arte contemporanea debba passare attraverso un fatto di cronaca che fa rumore. Qual è la tua opinione?
«Nella “società dello spettacolo” questo accade spesso: è in fondo la regola generale della comunicazione mediatica (“È la stampa, bellezza”) . Sta di fatto che l’incidente  – chiamiamolo così – amplificato dai media ha favorito flussi inaspettati di visitatori ad una mostra di difficile approccio concettuale. Occasione che curatori e organizzatori, ma anche ambienti intellettuali della città, hanno tentato di volgere in positivo stimolando riflessioni sull’arte contemporanea. Ma un dato imbarazzante  è evidente: l’inconsapevole signora Anna Macchi (così si chiama la donna delle pulizie) è stata celebrata nei talk show e assunta come testimonial di campagne ecologiche. È assurta ad eroina dell’arte del rifiuto o a star vendicatrice delle malefatte dell’arte contemporanea. Altro che i 15 minuti di celebrità preconizzati da Andy Warhol. Ma c’è anche il problema – piuttosto diffuso – che le redazioni di giornali e telegiornali non hanno molta dimestichezza, diciamo così, con l’arte contemporanea: è un atteggiamento che oscilla fra diffidenze tradizionaliste ed entusiasmi naif per l’attualità che fa clamore, si tratti di Sgarbi o di Cattelan».
C’è speranza nel cambiamento o siamo in un vortice di superficialità mediatica senza via d’uscita?
«Il cambiamento c’è sempre, è una condizione della Storia. Ma non ha più la direzione lineare del Progresso, lo sappiamo ormai dalla crisi lunga della modernità. Nel vortice ci stiamo, il problema è capirne i movimenti e governarne flussi e direzioni. Non so se sia impresa disperata, ma non possiamo fare altro nel tempo della complessità. Non possiamo più illuderci di stare al riparo sulla sponda di un fiume a contemplarne lo scorrimento. Magari varando barchette di carta».
Scrivi per la Gazzetta del Mezzogiorno da oltre cinquant’anni . Che posto e che importanza ha l’arte in un giornale nazionale? Inoltre, che taglio in un certo senso “dovrebbe” dare un giornalista al suo pezzo per attrarre l’interesse dei lettori? Perché in Italia si circoscrive sempre di più l’informazione artistica alle riviste specializzate quando invece in Europa stati come la Germania e la Francia dedicano ampi spazi sui quotidiani?
«Scrivere di arte su un quotidiano generalista comporta limiti oggettivi di spazio, cadenze e scadenze temporali, e l’adozione di un linguaggio il più possibile consono ai criteri propri della comunicazione giornalistica: chiarezza, concisione, precisione. Non si tratta di “adescare” il lettore ma di rendergli un servizio utile. Senza per questo assecondare la sua pigrizia, semmai stimolare, persino sfidare la voglia di sapere e di capire. Personalmente, cerco percorsi di narrazione per così dire: tento di far parlare le opere e gli autori, di scavare nelle loro storie. È un metodo di “investigazione”– definiamola così – che ho praticato anche negli anni in cui ho retto la cattedra di Storia dell’Arte nelle Accademie di Lecce e di Bari, con corsi mirati sulle avanguardie di ieri e di oggi, e nei master o lectures che tuttora mi capita di tenere. Cerco di mediare il rispetto verso tutti e il rigore delle scelte. Le sostengo e le difendo quando occorre, comunque non le impongo. Certo, gli spazi della critica si riducono sempre più sui giornali italiani. Pesano le concomitanze di diverse crisi: la crisi generale del Paese, la crisi di diffusione e di tenuta economica della carta stampata, la crisi della lettura da parte del pubblico, la crisi d‘identità della critica stessa. Fenomeno che non riguarda solo l’arte, ma la letteratura, il teatro, la musica, persino il cinema, “la più democratica delle arti” come vaticinò Benjamin».
Che senso e significato ha l’asservimento ai dettami delle mode e delle strategie redazionali? Come si può continuare ad avere una propria etica culturale?
«Non parlerei di asservimento ma di condiscendenza verso le epifanìe in superficie di eventi e personaggi che sembrano incarnare lo Zeitgeist, lo spirito del tempo. Nel concreto dei rapporti con l’arte in generale e con l’arte contemporanea in particolare, posso contestare la rinuncia da parte soprattutto dei grandi giornali nazionali ad ogni sorveglianza critica nei confronti dei grandi eventi e delle grandi mostre, specie se blockbuster. La comunicazione è affidata a compiacenti pagine paginoni ed inserti di pubblicità redazionale, occulta perché ben confezionata. È una responsabilità pesante di cui i critici sono spesso vittime, talvolta complici. E poi, nei rapporti quotidiani con il sistema dell’arte e con i suoi protagonisti a diretto contatto sul territorio, si fa delicato l’esercizio della “giusta distanza”. Io ci provo, ecco tutto».
Com’è cambiata la pratica giornalistica nell’abito culturale da quando hai iniziato a scrivere? Vedo in te l’ultimo baluardo di autorevolezza e sguardo critico in Puglia. Chi saranno i tuoi eredi culturali? Che spazio avranno? Quale capacità dovranno avere per poterselo ritagliare in un futuro editoriale sempre più frivolo?
«Nonostante le difficoltà di contesto, il livello di attenzione verso l’arte è molto cresciuto nella pubblicistica regionale, nei (pochi) quotidiani che si pubblicano in Puglia o che hanno edizioni o inserti locali. C’è un gruppo nutrito di critici più o meno giovani – la gran parte donne – che hanno buona preparazione e capacità di aggiornamento. È interessante l’emergere di competenze  interdisciplinari e intermediali. Io non sono più solo insomma, come in pratica è avvenuto per decenni. Poteva sembrare una posizione dominante, ma è stata molto scomoda e molto dura da sostenere. Ora quel tanto di credibilità acquisita con una lunga carriera professionale all’interno del giornale – avendone percorso tutti i gradi da redattore semplice a condirettore – mi consente di mantenere anche dall’esterno continuità e ampiezza di presenza di “sguardo critico” – come tu dici – anche sull’orizzonte nazionale – internazionale dell’arte. E’ un privilegio in controtendenza, che nessun altro organismo del sistema mediatico pugliese può assicurare, almeno sinora. Ma è anche una responsabilità parecchio complicata e pesante. Del futuro (dei giovani, ovviamente) non so. Cresce la mobilità di relazioni e crescono le potenzialità di comunicazione: nella Rete per esempio. Ma non mi sembrano ancora comprese appieno né sfruttate né comunque sufficienti. Io stesso provo ad allargare e qualificare la platea dei miei presunti lettori riversando su Facebook gli articoli principali che scrivo, ma è poca cosa. È anche vero che ormai l’esercizio (o il potere) critico che in qualche modo e misura conta qualcosa oggi non passa dai media, è quello dei curatori. Ma questo è altro discorso, che porta alla questione delle strutture per l’arte».
Per l’arte contemporanea, la Puglia è sempre vista da un punto di vista nazionale come una “regione emergente”, dove c’è fermento culturale, ma non accade mai niente di così decisivo per porla alla ribalta. L’attenzione sulla Puglia da parte dei media nazionali è sempre di carattere generico, eppure ci sono realtà importanti che lavorano da diversi anni, scenari verso i quali non ritrovo mai un approfondimento adeguato. È possibile che nonostante tutto il lavoro svolto, il territorio culturale resti sempre una zona periferica dal punto di vista artistico-istituzionale? Cos’è che non ha funzionato e cosa continua a non funzionare?
«La  Puglia sconta, come tutto il Sud, la storica condizione geopolitica di “periferia dell’impero” che persiste oggettivamente, a dispetto del “villaggio globale” preconizzato da McLuhan. C’è una questione meridionale anche per il sistema dell’arte, sebbene oggi si tenda a rimuoverla. Non bastano voli low cost e internet per rimediarvi. Però non sono affezionato all’idea di una politica culturale governata dalla voglia o ossessione di “venire alla ribalta”. Comporta rischi strategici di errori, di equivoci, di compatibilità. Mi interessa da sempre che si costituiscano piuttosto le condizioni per un buon servizio culturale al territorio: che significa informare, formare, ricercare, promuovere, anche conservare, fare rete e sistema. Crescere culturalmente, insomma. Se questo si riesce a fare con continuità, con rigore, con apertura costante agli orizzonti e alle dinamiche della contemporaneità internazionale e con attenzione ai fermenti e alle domande del luogo, la ribalta verrà da sé. Progressi notevoli sono stati compiuti nell’ultimo decennio, anche grazie ad una particolare attenzione della Regione Puglia. Ma soprattutto per una crescita animosa di iniziative private, seppure diseguale, saltuaria: parlo di artisti, di associazioni, di gallerie. Molte iniziative, mostre o cicli di mostre, eventi di livello anche internazionale si sono tenuti e si tengono seppure a singhiozzo, fra alti e bassi, fughe in avanti e ritirate improvvise. Un fenomeno recente ed  interessante è l’apporto di intelligenze ed esperienze di operatori pugliesi “pendolari”: critici, artisti, curatori che non praticano più come un tempo l’emigrazione senza ritorno ma vanno, vengono, cercano e stabiliscono relazioni fra il territorio e l’esterno. Ma continuano a mancare o ad essere insufficienti o inadeguati i “centri di gravità permanente”, le strutture istituzionali di base e di raccordo. E più che le “volontà politiche”, le intelligenze della politica. È debole la volontà e capacità di superare atavici individualismi. Persiste una vasta diffidenza verso il cambiamento. Manca una efficiente comunicazione. Per di più, la Puglia mi sembra stia vivendo oggi una fase di impasse anche della politica, e dei rapporti fra politica e cultura (c’è stata anche una “primavera pugliese”). Può seguirne un tempo di svolta, ma anche di regressione. Ma questi sono fantasmi senili, forse. Per i giovani c’è sempre la risorsa dell’ottimismo della volontà».
Ti ho incontrato a Kassel per l’ultima Documenta, alla Biennale di Venezia e in occasione di mostre internazionali importanti. Ammiro la tua inesauribile curiosità e la particolare investigazione nel contemporaneo. Ci puoi svelare qual è l’energia che ti spinge alla coerenza senza mai annoiarti? Quale metodo valido suggeriresti per affrontare l’analisi critica-giornalistica?
«In verità viaggio e mi muovo molto, ma meno di quanto vorrei e dovrei: perché non scrivo di mostre che non vedo con i miei occhi e di eventi di cui non sono testimone diretto. È un principio deontologico un po’ vecchiotto, lo ammetto, e un metodo critico quanto meno scomodo. Quindi non ho modelli da proporre, ma limiti da superare sempre. Probabilmente nascono dalle sliding doors della vita. Laureato in Lettere Classiche, nell’arte contemporanea fui scaraventato nel remoto 1956 (avevo già 25 anni) perché designato…d’ufficio segretario di un Premio nazionale di Pittura che si teneva per il “Maggio di Bari”(e ci sono rimasto sino al 1966) . Dunque l’impatto è stato con artisti e critici da incontrare, studi da visitare, casse da sballare, quadri da appendere, scelte e  trattative sul campo… Ho compiuto un percorso di formazione in flashback, per così dire: dalla pratica alla scrittura, dalla scrittura allo studio della teoria e della storia (imparare insegnando). È anche vero che ero nato e cresciuto fra tubetti di colore, vernici, gessi e crete e compagnie di artisti (mio padre era pittore e scultore). Insomma non ho mai concepito l’arte come distaccata dalla vita e dal contesto di cultura e società. Quindi sono un “curioso dell’arte”, ecco. La disponibilità al contemporaneo nasce anche da qui. Cerco di trasmetterla nei modi che mi sono consentanei. Oggi le strade che portano alla critica sono assai diverse, anche più attrezzate. Ma la condizione primaria resta la volontà e la capacità di interrogare un presente di continue mutazioni planetarie, conoscendo chi siamo e da dove veniamo».

Nasce a Taranto nel 1976, è critico d’arte e curatore indipendente. Laureata in Conservazione dei Beni Culturali presso l’Università del Salento, si è successivamente specializzata in comunicazione visiva e arte contemporanea a Roma e a Berlino dove ora vive. Ha collaborato con diverse testate del settore. Ha curato mostre in spazi privati e pubblici e pubblicato cataloghi di artisti. Collabora da diversi anni con il Centro d’Arte Contemporanea Torrione Passari.

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