Categorie: Personaggi

Noi artisti siamo dei prestanome

di - 14 Novembre 2016
“FINE” è il titolo della mostra di Giulio Paolini (Genova, 1940) inaugurata giovedì 10 novembre negli spazi della galleria Christian Stein (fino al 29 aprile) e organizzata come uno sguardo retrospettivo sulla carriera dell’artista che ha inciso nella storia dell’arte italiana come uno dei rappresentati più importanti nella ricerca di matrice concettuale. Curata da Bettina della Casa, il percorso espositivo si articola nei due spazi della galleria raccogliendo opere che testimoniano il lavoro di Paolini a partire degli anni Settanta – nelle sei sale immacolate di Pero, appena fuori Milano – per approdare poi a Palazzo Cicogna a Corso Monforte, in città, dove le reminiscenze dell’architettura cinquecentesca avvolgono Fine (2016). Un’istallazione avvincente che rievoca con forza le sue oeuvres completés. Come se si trattasse di una ricapitolazione, l’esperienza percettiva richiama all’unico video realizzato dall’artista, Unisono (1974), dove scorrono velocissime le immagini fotografiche dei precedenti quattordici anni di lavoro e in cui, paradossalmente, non c’è né inizio né fine.
Fine è un’opera affascinante che condensa la ricerca verso la dimensione assoluta dell’arte, un’opera di grandi dimensioni (cm 320 x 877 x 325) conformata da elementi che appartengono al linguaggio che l’artista ha conquistato: cornici dorate, matite, tele, riproduzioni fotografiche, calchi in gesso, bancali in legno, sagome di plexiglas, un leggio di musica, come quelli che potrebbero ospitare Le variazioni Goldberg di Bach e che allo stesso modo ci suggeriscono un sentiero in cui inizio e fine si ripetono avvicendandosi, in cui la distinzione protocollare tra un punto di partenza e uno di arrivo si perde nel susseguirsi ininterrotto di uno nell’altro.

Il percorso espositivo si rivela l’ingresso a un mondo in cui ha sede la memoria. I rimandi producono uno scarto spazio temporale in cui le opere coesistono legate dai vincoli della storia dell’arte, della poesia e della letteratura. Esplorare questa coinvolgente mostra significa inoltrarsi nell’universo di Paolini fatto di evocazioni, suggestioni e sottigliezze, senza però tralasciare la dimensione visiva delle opere. I molteplici livelli di lettura donano giochi di sguardi e di intelletto. Se da una parte l’esperienza visiva si impone al primo incontro attraverso una riuscita e acuta messa in scena, dall’altra, man mano che il visitatore si inoltra nella contemplazione e accoglie il mosaico di fitte allusioni, da Prassitele a Botticelli e Géricault, da Mallarmé a Diderot, le opere ci spingono verso una certa soppressione dell’abituale concezione del tempo. Il qui e ora si dilegua coinvolgendo nel presente un senso di passato e anche un senso di futuro. Abbiamo incontrato l’artista qualche giorno prima dell’inaugurazione.
Ci può raccontare come si sviluppa la mostra? Si può parlare di una sintesi del suo lavoro?
«Non c’è un senso veramente cronologico, si tratta di opere di varie date e non sono necessariamente messe in sequenza cronologica. In generale siamo di fronte a opere che già esistevano, anche se non troppo esposte date le loro grandi dimensioni. Per non lasciare solo al passato questa visita [a Pero], ho punteggiato con tre opere nuove, ma sostanzialmente si tratta di uno sguardo retrospettivo. Invece a Corso Monforte, a Palazzo Cicogna dove c’è tutto un altro tipo di ambiente con una bella sala d’epoca, si trova un’opera inedita che in fondo ha promosso e trascinato tutto il resto: Fine».

Perché Fine?
«Ci sono molti pretesti perché si chiami così, ma non deve essere come una fine definitiva. Senza l’articolo la fine o il fine, diventa un po’ enigmatico, c’è un po’ suspense. Ho accompagnato questa mostra, o meglio queste due mostre, con un mio scritto che non è veramente una descrizione capillare delle opere esposte, anzi quasi non parlo delle opere, bensì delle cose che mi stanno a cuore e che quindi ho voluto inserire in quest’occasione».
Quale è stato il filo rosso da cui prende le mosse questa esposizione?
«In realtà, alla ribalta – facciamo finta di essere a teatro – in primo piano c’è l’opera in Corso Monforte, quella che può considerarsi forse la ragione prima di questa messa in scena generale. Con l’opera Fine [2016] c’è proprio una parola detta, appunto, dal palcoscenico in primo piano verso il pubblico. All’origine di questa istallazione si trova un preciso riferimento al quadro L’Embarquement pour Cythère [1717], il più famoso di Jean-Antoine Watteau. Questo quadro, che non a caso fece epoca, rappresenta una piccola folla di convenuti in un parco, i pellegrini, tutti intenzionati a imbarcarsi per raggiungere l’isola di Citera che era il simbolo irrinunciabile della poesia e della bellezza».

Lei ha spesso affermato che nella sua opera la fine ripete l’inizio e che tutto è già implicito nel primo disegno. C’era già in un certo senso il preludio di Fine (2016) in Disegno geometrico (1960)?
«Io credo che per il mio carattere, penso per destino generale di un artista, ogni cosa, ogni mostra, ma forse addirittura ogni opera che si inventa, che si organizza, è sempre un po’ la sintesi o l’eco di quello che l’ha preceduta. Questo è ciò che penso, ma sono pensieri un po’ personali, troppo personali. Però ritengo che ci sia anche qualche cosa di avvertibile, cioè che man mano che si fa, si è sempre più consapevoli di quello che si è già fatto, non in modo apparente, ma in modo intenzionale, come concezione di questo strano lavoro».
Come riemerge Disegno geometrico in Collezione privata (1998) qui in esposizione?
«In quest’opera qui di fronte a noi [Collezione privata (1998)] c’è una sovrapposizione di due tipi di superficie. La serie che sembra poter estendersi all’infinito, sopra sotto, destra e sinistra delle cornici dorate, corrisponde alla mia prima opera Disegno geometrico fatta nel 1960, che rimane per me una sorta di presa dei voti. Quell’opera ricorre, per misure e proporzioni, in tanti dei miei lavori venuti dopo. E un po’ il mio habitat, è la mia dimensione, sempre uguale, perché si riferisce a quella prima opera. Invece, a matita sul muro, sono tracciati i profili di altre opere di altri artisti che ho la fortuna di avere in collezione: sono sparpagliati e diversi. Mentre il modulo continuo delle cornice dorate è una dimensione ferma, lì c’è invece la occasionalità, la realtà contingente».

Nel suo percorso artistico ci sono certe affinità con concetti come la “morte dell’autore” di Barthes, la fenomenologia della percezione di Merleau-Ponty e altre considerazioni sullo sguardo di Lacan. Che rapporto ha avuto con questi autori?
«Non certo da specialista. Ho cercato di assumere e di elaborare certi concetti che ho trovato sempre molto congeniali. Sono un sostenitore di questi autori, soprattutto nel senso che sempre più mi convinco dell’idea che l’autore non esista, e che è una controfigura che la storia dell’arte assegna a un certo nome perché la dinastia dell’autorialità di una disciplina o dell’altra vada a compimento. In altre parole, io non metterei mai niente di personale. Per me l’opera d’arte non è una proiezione dell’autore, è un’apparizione che si presenta all’autore il quale ovviamente la deve sapere accogliere. L’opera si autogenera, si autocrea. Noi autori siamo dei prestanome».
Riguardo la figura dell’autore, perché paragona l’artista a Sisifo?
«Sisifo è una bella immagine. Credo che interessi tutti gli individui in generale ma in particolare riguarda l’autore, perché questo pensa sempre di riuscire ad afferrare quel qualcosa che vuol essere, che vuol dire, e in realtà lo dice e poi torna a voler dire, magari la stessa cosa, però sempre attirato dalla possibilità di dire di nuovo, e quindi Sisifo che precipita e risale».
Ana Laura Espósito

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  • speriamo che sia la fine di queste messe in scena simil teatrali, era un artista è diventato uno scenografo di dubbio gusto

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