ART ORIENTed

di - 2 Marzo 2012
É una febbre modaiola o c’è qualcosa sotto? Da Abu Dhabi a Istanbul, da Tel Aviv all’Italia si incrociano sguardi tra Occidente e Medio Oriente, con l’occhio degli artisti, dei critici e dei galleristi sempre più interessati alle vicende contemporanee dei Paesi di quella fetta di mondo. Ne sono la prova mostre suggestive, l’interesse sociale e culturale che ha portato con sé la “primavera araba” di un anno fa: un’onda che non accenna a diminuire. Ma com’è veramente la situazione, mentre anche la fiera di Dubai, lanciata verso la sua sesta edizione, si attesta come una delle manifestazioni più importanti dei Paesi Arabi con collaborazioni che vanno dal Louvre al MoMa? Cominciamo da Israele, Paese che sta tentando una veloce scalata nel mondo internazionale dell’arte – in questi giorni una delegazione di AMACI è in visita ufficiale su invito statale – dove però permangono criticità. Yiftach Belsky, fotografo israeliano con studi alla School of Visual Art di New York e una collaborazione con la Dan Gallery di Tel Aviv, attiva dal 1984 nella promozione dei giovani artisti locali, sottolinea lo scarso sostegno economico della creatività: «In Israele ci sono alcune borse di studio, ma in confronto ai Paesi europei sono praticamente nulle. Un giovane artista ha bisogno di avere un’altra attività per poter finanziare i propri lavori». Una condizione purtroppo a noi familiare, e che rivela un collezionismo poco maturo sulle scelte “azzardate”: «A New York se ad un collezionista piace il tuo lavoro lo compra. In Israele prima vogliono vedere il curriculum». Anche qui, insomma, si tratta bisogna abbattere alcuni muri, altrettanto familiari.
In Occidente, comunque, la soglia d’attenzione rimane abbastanza alta. Durante i giorni di Artefiera, Aurs al Arab (Ours?), progetto curatoriale di Gaia Serena Simionati, ha messo l’accento proprio sulla situazione del Medio Oriente attraverso una serie di opere dal tono piuttosto acceso: con una mappa-tappeto del M. O. rovesciata (i territori ad Est diventano l’Ovest e viceversa) l’artista Sami Alkarim, rifugiato iracheno negli Usa, punta il dito su una rivoluzione fasulla, più spesso pilotata e diretta da forze religiose. Ma l’opera forse più emblematica raccolta nella collettiva, realizzata in collaborazione con la galleria Oltredimore, era il muro Palinsest di Maziar Mohktari, una serie di piccole stampe fotografiche che tratteggiavano una riflessione sulla barriera come ostruzione e protezione: ad Isfahan, città dell’Iran, durante la notte i muri cittadini vengono invasi da scritte inneggianti la libertà e la rivoluzione. All’alba le medesime scritte vengono cancellate con vernice gialla dagli addetti delle pulizie al servizio del governo. Una rivoluzione che passa attraverso la negazione del messaggio. Spariscono le testimonianze e resta una nuova traccia colorata che le identifica, occultandole senza sopirle. Sembra insomma che “la festa sia finita per tutti” come scrive Simionati. E in effetti i riflettori si sono un po’ abbassati anche sulla Libia, l’Egitto, la Tunisia.
Buone notizie, invece, dalla Giordania. Gianluca Malgeri, artista che vive a Berlino ma che ha lavorato anche ad Ammam e Istanbul, ha posto alcune nostre domande a Sarah Abu Alia, co-fondatrice dello spazio Art Medium di Ammam, e la sua risposta è molto positiva: «A un anno dalla “Primavera” gli artisti sono in aumento, così come le possibilità di esprimersi e di avere una voce» e sulle prospettive rimarca: «C’è una forte componente di attualità nelle ispirazioni e non credo sarà una vicenda temporanea. É un’onda destinata a moltiplicarsi ulteriormente».
Ma come vive un italiano che lavora in Medio-Oriente questo momento? «Non sono ancora riuscito a scoprire chi ha dato il nome di “Primavera Araba” e perché, ma mi sembra un ennesimo termine da orientalisti. In più credo che questa primavera tocchi i Paesi che recano profitto alle grandi potenze», risponde Malgeri.
Eppure, nella bella favola della primavera araba, ci sono stati esempi di come l’arte sia stata il tramite della volontà di riscatto delle popolazioni sottomesse: il blog di Ulysses, nickname di uno studente mediorientale, ha contribuito attraverso l’Hip Hop, genere musicale quasi sconosciuto alle popolazioni del Nord Africa, a diffondere idee di rivoluzione. Cultura underground per la sovversione, temuta dalla politica governativa, diffusa attraverso social-network con nuove forme di “intrattenimento” occidentale  sono divenute le sottili armi per scuotere le coscienze. L’episodio più emblematico era stato l’arresto del rapper El Général, che scagliava le sue parole contro l’ex presidente tunisino Bel Ali. Una mossa che aveva acceso le manifestazioni a favore della democrazia in tutto il Paese e che aveva fatto diventare il rapper uno dei simboli della nuova Tunisia. «Io sono contro chi usa la religione per scopi politici. La politica è un gioco sporco. La religione deve starne alla larga» scandisce nei suoi testi El Général.
Ma la maggior parte degli sforzi per una promozione commerciale dell’arte contemporanea è localizzata negli Emirati. Tra pochi giorni prende il via la nona edizione dell’Abu Dhabi Festival (dal prossimo 20 marzo) improntato quest’anno proprio sul tema della “connessione tra culture”, dove il Paese d’onore sarà il Regno Unito, con il quale il festival ha stabilito delle partnership con istituzioni culturali a dir poco strategiche: la Royal Opera House, il Manchester International Festival e il Festival Internazionale di Edimburgo. Molto articolata l’offerta: esibizioni musicali di vario genere, dal sitar alla filarmonica, dalle performance al Kung Fu, dal balletto al concerto di Natalie Cole fino a Shakespeare. Un forte programma di sviluppo locale sulla base di una commistione tra le parti tra diplomazia culturale ed eredità del patrimonio arabo. Insomma, è piuttosto intricato tracciare il bilancio dal nostro punto di vista: mentre il Medio Oriente per certi versi guarda all’Occidente come al centro del mondo, dove tutto succede e dove non si soffre di isolamento, noi guardiamo al Medio Oriente come l’esempio di una riconquista della dignità dell’arte come messaggio rivoluzionario, nelle molteplici declinazioni che il termine rappresenta anche nei Paesi arabi.

matteo bergamini

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