ERGO SUM |

di - 17 Maggio 2010

Dagli anni ‘60 in poi nulla è più da “superare”, è come se
l’arte avesse consumato in anticipo il suo futuro. Su questa perdita di futuro
si può formulare un’altra ipotesi, alternativa a quella nichilista della “fine
dell’arte”, e più immaginifica; si potrebbe vedere in essa una liberazione
dalla necessità di dover produrre a tutti i costi un’opera, di crearla ex nihilo: una liberazione dal mito
dell’originalità che ha segnato la modernità.
In un testo del 1959, Debord
esponeva le sue idee sul concetto di riappropriazione delle forme esistenti,
conferendo loro una diversa disposizione spaziale e temporale. La parola
utilizzata da Debord è détournement – sviamento, deviazione – che promuove un rapporto con le
forme elaborate dal passato implicitamente politico: il sapere delle forme e le
significazioni sociali connesse – ma questo vale per ogni sapere – non sono una
proprietà esclusiva degli artisti che le hanno realizzate. Perché quelle stesse
sono state a loro volta il frutto di elaborazioni che guardavano a forme
precedenti, ricombinandone gli elementi in nuove configurazioni.
In arte non
esisterebbe ciò che oggi è noto come “proprietà intellettuale”, perché ogni
opera – segretamente o no – ha attinto ad altre opere, o per contrapporvisi o
per prolungarne l’esistenza; tutto in tal senso sarebbe suscettibile di un riutilizzo
in una nuova unità di elementi artistici preesistenti. Secondo Debord, la forza
del détournement
consiste nel “doppio fondo” che l’opera conterrebbe in virtù dell’antico significato
a cui si aggiunge il nuovo. Ma affinché questo accada è necessario
“devalorizzare” il vecchio significato, destoricizzarlo per rendere la forma
disponibile a una nuova significazione. Dal punto di vista processuale, questo
procedimento storicamente ha fatto ricorso alla parodia, perché ha il potere di
neutralizzare il contenuto sedimentato nell’opera, di svuotarlo dell’impronta
originale e renderla disponibile per nuove significazioni. È ciò che fa Duchamp
quando mette i baffi e la barba alla Gioconda.
Ma prima di lui la parodia era
stato l’elemento portante di alcune celebri opere di Manet, come La
colazione sull’erba

che, riproponendo il tema dell’allegoria campestre, dove al centro del quadro
regna l’idea di femminilità associata all’immagine della natura, mette invece
una delle più frequentate cortigiane parigine. Ma forse colui che più di ogni
altro ha utilizzato la parodia in funzione dello sviamento del significato è
stato Raymond Roussel, come confessa in Come ho scritto alcuni miei libri: “Giovanissimo scrivevo già
racconti di poche pagine impiegando questo procedimento. Sceglievo due parole
quasi simili (sul tipo dei metagrammi). Per esempio billard (biliardo) e
pillard (predone). Poi vi aggiungevo parole simili ma prese in due sensi
differenti, e ottenevo così due frasi identiche
”. Foucault a proposito di Roussel
parlava di macchina linguistica che coniuga la vita e la morte: “Nel loro
funzionamento fondamentale le macchine di Roussel fanno passare ogni parola dal
momento assoluto dell’abolizione, per ritrovare il linguaggio sdoppiato da se
stesso – pertanto simile a sé – in un’imitazione così perfetta che solo fra
essa e il suo modello ha potuto insinuarsi la sottile lama nera della morte
”.

Dunque, il principio mortale di
ogni forma è proprio la sua duplicazione parodistica che ne altera
l’originalità (e l’originarietà). Sarebbe utile capire quanto di questa
macchinazione di Roussel oggi sopravviva. In ogni caso, ciò che rende ancora
attuale l’idea di Debord è proprio il fatto che mette in discussione la nozione
di “proprietà intellettuale” e, cosa ancora più radicale, l’idea dell’artista
come “creatore” assoluto di forme e immagini, perché un artista che non è più
“originale” a rigore non è più neanche un artista, se diamo a questa parola il
significato che abbiamo ereditato a partire dal Rinascimento.
Se è così, se
l’ipotesi sostenuta da alcuni critici d’arte è vera (Nicolas Bourriaud, ad
esempio), e cioè che esiste oggi un “comunismo delle forme”, un bricolage del senso, bisogna
allora smettere di chiamare gli artisti “artisti”, appunto. Come chiamarli,
dunque? “Operai qualificati in postproduzione”, suggerisce Bourriaud.

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saggista e redattore di cyberzone


*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 65. Te l’eri perso? Abbonati!

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  • Potremo parlare di una burocrazia della creatività, fatta di impiegati e operai. Nulla di male in questo. Ma si tratta di una post post produzione, e quindi i nuovi DJ/VJ sono i "curatori" che ormai non disdegnano legittimamente la definizione di artista (vedi recente mostra di antonio grulli da raffaella cortese a milano) alla ricerca della propria PLAYLIST. In linea di massima gli artisti sono accessori e sfumature. Resistono i valori consolidati, intorno a quello che potremo definire un vuoto autoriale (vista la marginalità degli artisti e il ruolo non completo degli artisti-curatori). Il meglio che c'è è un focus o un recupero su certe intuizioni del 1900. Poi è chiaro che c'è un sistema di gusto e di mercato che deve necessariamente procedere, rifiutando l'idea del re nudo; e la cosa è assolutamente positiva.

    L'alternativa credo che sia in un maggiore distacco, una deprofessionalizzazione (che non significa poca professionalità). Uno sguardo più laterale e trasversale. Non si tratta nemmeno di critica istituzionale, piuttosto di un suo sereno superamento. Per superare questo guado non vedo altre soluzioni che non siano nell'esorbitare l'autoreferenzialità (già dinamica fisiologica del sistema), e quindi sintetizzare ogni ruolo/livello del sistema in un solo punto.

    Se io sono o posso essere tutti, sono sostanzialmente indipendente. Non a caso molti si firmano luca rossi e lasciano commenti. Non posso dire di essere più luca rossi di loro. Ma la fusione e confusione è soprattutto di ruolo. Si tratta di giocare con i pezzi fuori da dinamiche razionali e politiche. E invece la precarietà della fase attuale rende proprio i più giovani aggrappati ad atteggiamenti "politici" e omertosi.

  • La parodia, l'accostamento "ironico" che svuota e devalorizza determinati simboli, immagini, frammenti, per dare la possibilità di un approccio fondamentalmente concettuale allo spettatore non è l'unica via che oggi gli "artisti", o come li si preferisca chiamare,portano avanti. E' sicuramente quella che nell'arte figurativa ha avuto più sviluppo specialmente nel '900, ma esisteva già prima e coesisteva con altri approcci che oggi sembrano soccombere ma che un tempo erano la regola. Forse è tutto un problema di aura, forse di religione e sacralità dell'immagine e dell'oggetto, forse, forse forse... di certo per fortuna gli atteggiamenti dell'essere umano rispetto all' "opera" non sono infiniti, e benchè ve ne sia sempre uno preponderante, gli altri non scompaiono mai del tutto ma riaffiorano, si tratta solo di riconoscerli nella loro nuova forma oggi.

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