GILLO CENTURY |

di - 22 Aprile 2010
Come mai, mi sono spesso
chiesto, un tempo esistevano quegli strani aggeggi – non si parlava ancora di
gadget – chiamati sputacchiere?
È un ricordo della
primissima infanzia. Allora, ad ogni pianerottolo di scala, ad ogni ingresso di
locale pubblico, si potevano vedere questi oggetti, di cui oggi, per fortuna,
non resta quasi traccia né memoria. Già il nome, con la sua connotazione
alquanto disgustosa, ci sembra remoto circa come quelli, altrettanto
ottocenteschi, di baroccio, calesse, focarile, arcolaio, ecc.
Se, dunque, la
sputacchiera esisteva ed era molto diffusa vuol dire che la generalità della
gente sputava. Ma perché sputava? Non posso credere che fosse per motivi
fisiologici, per una maggior attività delle ghiandole salivari, e neppure per
la diversità del cibo, o per una generalizzata presenza di TBC. Perché, allora,
ieri sì e oggi no? Esistono evidentemente manifestazioni corporee legate in
apparenza al nostro organismo per ragioni costituzionali, che invece lo sono
per ragioni squisitamente sociologiche e antropologiche, se non addirittura
estetiche (penso a chi si soffia il naso con tutte e due le mani, o a chi
tossisce senza mettersi la mano davanti alla bocca).
Se sputare non è più di
moda, non è più «civile», ecco che diventa di colpo non fisiologico e si
converte addirittura in sintomo patologico.
Credo, tuttavia, che alla
base d’una questione come questa, in apparenza futile e lepida, esistano ben
più serie implicazioni. Anche senza ricorrere agli insegnamenti d’un Edward
Hall, o d’un Birdwhistle – padri della prossemica e della cinesica – o a quel
geniale scrittore, oltre che studioso, che fu Erving Goffman, tutti sappiamo o
dovremmo sapere quanto diverse sono le maniere del comportamento – delle relations
in public
– (titolo d’un noto
testo di Goffman) – a seconda dei Paesi e delle popolazioni relative. Se è vero
che il ruttare in segno d’apprezzamento per il cibo ricevuto è comune presso
popolazioni a noi molto vicine geograficamente (e probabilmente in un prossimo
futuro anche politicamente) come gli arabi; se, per contro, è vero che dare la
mano ogni volta che s’incontra qualcuno è leggermente sgradito in un Paese a
noi altrettanto vicino come il Regno Unito, come dovremmo considerare
obiettivamente l’estrinsecazione di atteggiamenti corporei in parte censurati
da alcune popolazioni? Sicché, in definitiva, un codice comportamentale o
behaviorista è ancora tutto da studiare se si vuol vivere in pace col prossimo
senza offendere e senza essere offesi dalle proprie e altrui manifestazioni
corporee.
Mi è capitato di recente –
a un banchetto offerto durante un convegno internazionale di filosofia – di
constatare con un certo disgusto che la mia dirimpettaia – una giovane e
graziosa e molto dotta americana – ripuliva accuratamente la sua «fondina» di
tutta la residua salsa di pomodoro, tenendo un pezzo di pane tra pollice e
indice, con un impegno certo pari a quello che poneva nelle sue ricerche
filologiche o semiotiche. Tutto ciò proseguendo un discorso molto impegnato al
quale partecipavano altri congressisti (tra i quali anche il grande Hans Robert
Jauss – il fondatore dell’estetica della ricezione – che non sembrava per nulla
scioccato dall’esibizione della collega).
Non si trattava in questo
caso di cattive maniere, né di mancanza di Kinderstube (come si diceva ai tempi dell’Impero, e come spero
si dirà ancora nell’attuale e futura Mitteleuropa), ma di una decisa assenza di
sensibilità estetica. Certo, non siamo più ai tempi delle buone maniere
ottocentesche (anche se un libro come il Bon Ton di Lina Sotis è prezioso proprio ai nostri giorni);
ma credo, tuttavia, che sia altrettanto controproducente la convinzione che il
bon ton odierno – soprattutto di genere intellettuale – possa risultare da una
sciatteria nel modo di vestirsi e di mangiare o nel turpiloquio nei conversari
salottieri. Si prenda, ad esempio, l’uso delle parolacce a sfondo sessuale,
ormai per fortuna non più tanto esibite da giovani e non più giovani signore
dell’intelligencija, da quando
è lecito, persino sui quotidiani, scrivere tutte le parole
che iniziano con la C senza bisogno di aggiungere puntini e puntini alle stesse.
Ebbene: la liberalizzazione del pornoeloquio (così ben analizzato a suo tempo
da Nora Galli de’ Paratesi) ha avuto l’ottima funzione di ridurre il
«contro-tabù» dell’esibizionismo coprolalico a tutti i costi.
Ma a questo punto siamo
giunti a uno spartiacque che è bene rispettare: d’accordo, non è più scandaloso
pronunciare certi vocaboli un tempo all’indice; non è più scandalo esibire il
proprio seno (purché di giuste proporzioni, il che purtroppo è spesso
disatteso), ma ci sono altri gesti e altri cerimoniali che dovrebbero essere
messi al bando proprio per ragioni estetiche: da quello di usare lo stecchino
coram populo, a quello di ripulire il proprio piatto secondo l’esempio della
professoressa.
Nel caso, poi, del
convegno a cui più sopra facevo riferimento, non so se Jauss – persona quanto
mai gentile e bonaria – abbia «recepito» come estetica la manovra della sua
collega statunitense. Eppure – se è il momento recettivo a contare, non
soltanto nel caso dell’opera d’arte ma anche in quello d’una relazione
interindividuale – penso che, appunto in questo caso, l’«estetica della
ricezione» avrebbe dovuto dimostrare la sua efficacia critica oltre che
analitica.

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gillo dorfles


Il testo che avete
letto, originariamente uscito sul “Corriere della Sera”, è stato raccolto nel
volume “Irritazioni”, dapprima edito da Luni nel 1997 e appena ristampato da
Castelvecchi per le cure di Massimo Carboni.

[exibart]


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